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Plinio Corrêa de Oliveira
Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana
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CAPITOLO V Elites, ordinamento naturale, famiglia e tradizione - Istituzioni aristocratiche nella democrazia
“Fu nobile anche Gesù Cristo e nobili furono Maria e Giuseppe, quali discendenti da regale prosapia” (Benedetto XV, allocuzione al PNR 1917). Quadro di autore anonimo della scuola peruviana di Cuzco, raffigurante la Sacra Famiglia, venerato nella sede principale della TFP brasiliana a San Paolo.
Nel capitolo precedente abbiamo considerato l'insegnamento di Pio XII sulla missione della nobiltà nel nostro tempo. Bisogna ora analizzare la dottrina del Pontefice sul compito che spetta alle élites tradizionali - e fra queste principalmente alla nobiltà - di preservare la tradizione e, in questo modo, essere agenti di progresso; e sulla perennità di queste stesse élites, come pure sulla loro perfetta compatibilità con una vera democrazia.
1. Le élites si formano perfino in Paesi senza passato monarchico o aristocratico La formazione di élites tradizionali, aventi un tonus aristocratico, è un fatto così profondamente naturale da manifestarsi perfino in Paesi privi di passato monarchico o aristocratico. “Anche nelle democrazie di fresca data e che non hanno dietro di loro alcun vestigio di un passato feudale, si è venuta formando, per la forza stessa delle cose, una specie di nuova nobiltà o aristocrazia. E la comunanza delle famiglie che per tradizione mettono tutte le loro energie al servizio dello Stato, del suo governo, della sua amministrazione, e sulla cui fedeltà esso può in ogni momento contare” (1). Magnifica definizione della natura della nobiltà, che fa venire in mente le grandi dinastie di colonizzatori, di sboscatori e coltivatori che, per secoli, hanno realizzato il progresso delle Americhe e che, mantenendosi fedeli alle loro tradizioni, sono diventate preziosa ricchezza morale della società in cui vivono.
2. L’ereditarietà nelle élites tradizionali C'è innanzitutto un fatto naturale, legato all'esistenza delle élites tradizionali, che bisogna ricordare: l'ereditarietà. “Di questa grande e misteriosa cosa che è l'eredità - vale a dire il passaggio in una stirpe, perpetuantesi di generazione in generazione, di un ricco insieme di beni materiali e spirituali, la continuità di un medesimo tipo fisico e morale conservantesi da padre in figlio, la tradizione che unisce attraverso i secoli membri di una medesima famiglia - di questa eredità, diciamo, si può senza dubbio travisare la vera natura con teorie materialiste. Ma si può anche e si deve considerare una tale realtà di così grande importanza nella pienezza della sua verità umana e soprannaturale. “Non si negherà certamente il fatto di un sostrato materiale alla trasmissione dei caratteri ereditari; per meravigliarsene, bisognerebbe dimenticare la unione intima della nostra anima col nostro corpo, e in quale larga misura le stesse nostre attività più spirituali siano dipendenti dal nostro temperamento fisico. Perciò la morale cristiana non manca di ricordare ai genitori le gravi responsabilità che loro spettano a tale riguardo. “Ma quel che più vale è la eredità spirituale, trasmessa non tanto per mezzo di questi misteriosi legami della generazione materiale, quanto con l'azione permanente di quell'ambiente privilegiato che costituisce la famiglia, con la lenta e profonda formazione delle anime nell'atmosfera di un focolare ricco di alte tradizioni intellettuali, morali, e soprattutto cristiane, con la mutua influenza fra coloro che dimorano in una medesima casa, influenza i cui benefici effetti si prolungano ben al di là degli anni della fanciullezza e della gioventù, sino al termine di una lunga vita, in quelle anime elette, che sanno fondere in se stesse i tesori di una preziosa eredità col contributo delle loro proprie qualità ed esperienze. “Tale è il patrimonio, sopra ogni altro pregevole, che, illuminato da una fede salda, vivificato da una forte e fedele pratica della vita cristiana in tutte le sue esigenze, eleverà, affinerà, arricchirà le anime dei vostri figli” (2).
3. Le élites, promotrici del vero progresso e custodi della tradizione C'è un nesso tra la nobiltà e la tradizione: quella è custode naturale di questa. La nobiltà è, nella società civile, la classe incaricata, più di ogni altra, di mantenere vivo il nesso mediante il quale la saggezza del passato governa il presente senza immobilizzarlo. a) Le élites sono nemiche del progresso? I rivoluzionari sogliono avanzare, contro la nobiltà e le élites tradizionali, la seguente obiezione: proprio perché tradizionali, esse sarebbero rivolte costantemente al passato, voltando le spalle al futuro nel quale si trova il vero progresso; esse rappresenterebbero quindi un ostacolo per realizzarlo nella società. Tuttavia, insegna Pio XII, l'autentico progresso può esistere soltanto nella linea della tradizione, è reale solo se costituisce non necessariamente un ritorno al passato ma un armonico sviluppo di questo (3). Infatti, interrotta la tradizione, la società viene esposta a terribili rischi: “Le cose terrene scorrono come un fiume nell'alveo del tempo: necessariamente il passato cede il posto e la via all'avvenire, e il presente non è che un istante fugace che congiunge l'uno con l'altro. È un fatto, è un moto, è una legge; non è in sé un male. Il male sarebbe, se questo presente, che dovrebbe essere un flutto tranquillo nella continuità della corrente, divenisse una tromba marina, sconvolgendo ogni cosa come tifone o uragano al suo avanzamento, e scavando con furioso distruggimento e rapimento un abisso tra ciò che fu e ciò che deve seguire. Tali sbalzi disordinati, che fa la storia nel suo corso, costituiscono allora e segnano ciò che si chiama una crisi, vale a dire un passaggio pericoloso, che può far capo a salvezza o a rovina irreparabile, ma la cui soluzione è tuttora avvolta di mistero entro la caligine delle forze contrastanti” (4). La tradizione preserva le società dal ristagnamento, come pure dal caos e dalla rivolta. La tutela della tradizione, alla quale allude Pio XII in questo passo, è la missione specifica della nobiltà e delle élites analoghe. Tradiscono questa missione non soltanto le élites che si astraggono dalla vita concreta, ma anche quelle che peccano per l'eccesso opposto: ignorando la propria missione, esse si lasciano assorbire dal presente, rinnegando tutto il passato. Mediante la forza dell'ereditarietà, i nobili prolungano in terra la vita dei grandi uomini del passato: “Voi, ricordando i vostri avi, quasi li rivivete; e i vostri avi rivivono nei vostri nomi e nei titoli che vi hanno lasciati dei loro meriti e delle loro grandezze” (5). A questo riguardo, Rivarol, il brillante polemista francese nemico della Rivoluzione dell'89, della quale fu contemporaneo, affermò: “I nobili sono come monete più o meno antiche trasformate dal tempo in medaglie” (Cfr. M. Berville, Mémoires de Rivarol, Baudoin Frères, Paris 1824, p. 212).
“I nobili sono come monete più o meno antiche trasformate dal tempo in medaglie” (Antoine Rivarol, 1753-1801) Questo conferisce alla nobiltà ed alle élites tradizionali una missione morale tutta speciale, giacché assicurano al progresso la continuità col passato: “La società umana non è forse, o almeno non dovrebbe essere, simile ad una macchina bene ordinata, di cui tutti gli organi concorrono all'azione armonica dell'insieme? Ognuno di essi ha il proprio ufficio, ognuno deve applicarsi al miglior progresso dell'organismo sociale, deve cercarne il perfezionamento, secondo le proprie forze e la propria virtù, se veramente ama il suo prossimo e tende ragionevolmente al bene ed al vantaggio comune. “Ora, quale parte è stata commessa in modo speciale a voi, diletti figli e figlie? Quale ufficio vi è stato particolarmente attribuito? Precisamente quello di agevolare questo svolgimento normale; quello che nella macchina presta e compie il regolatore, il volano, il reostato, che partecipano all'attività comune e ricevono la loro parte della forza motrice per assicurare il movimento di regime dell'apparecchio. In altri termini, patriziato e nobiltà, voi rappresentate e continuate la tradizione” (6). b) Significato e valore della vera tradizione L’apprezzare una tradizione è oggi virtù rarissima: da un lato perché l'ansia di novità, il disprezzo del passato sono stati d'animo resi molto frequenti dalla Rivoluzione (7); dall'altro perché i difensori della tradizione l'intendono a volte in maniera completamente falsa. La tradizione non è un mero valore storico né un semplice tema per variazioni tipico di un romanticismo nostalgico; essa è un valore che va inteso non in modo esclusivamente archeologico, ma come fattore indispensabile per la vita contemporanea. La parola tradizione, dice il Pontefice, “suona sgradita a molti orecchi; essa spiace a buon diritto, quando è pronunciata da certe labbra. Alcuni la comprendono male; altri ne fanno il cartellino menzognero del loro egoismo inattivo. In tale drammatico dissenso ed equivoco, non poche voci invidiose, spesso ostili e di cattiva fede, più spesso ancora ignoranti o ingannate, vi interrogano e vi domandano senza riguardo: A che cosa servite voi? Per rispondere loro, conviene prima intendersi sul vero senso e valore di questa tradizione, di cui voi volete essere principalmente i rappresentanti. “Molti animi, anche sinceri, s'immaginano e credono che la tradizione non sia altro che il ricordo, il pallido vestigio di un passato che non è più, che non può più tornare, che tutt'al più viene con venerazione, con riconoscenza se vi piace, relegato e conservato in un museo che pochi amatori o amici visitano. Se in ciò consistesse e a ciò si riducesse la tradizione, e se importasse il rifiuto o il disprezzo del cammino verso l'avvenire, si avrebbe ragione di negarle rispetto e onore, e sarebbero da riguardare con compassione i sognatori del passato, ritardatari in faccia al presente e al futuro, e con maggior severità coloro, che, mossi da intenzione meno rispettabile e pura, altro non sono che i disertori dei doveri dell'ora che volge così luttuosa. “Ma la tradizione è cosa motto diversa dal semplice attaccamento ad un passato scomparso; è tutto l'opposto di una reazione che diffida di ogni sano progresso. Il suo stesso vocabolo etimologicamente è sinonimo di cammino e di avanzamento. Sinonimia, non identità. Mentre infatti il progresso indica soltanto il fatto del cammino in avanti passo innanzi passo, cercando con lo sguardo un incerto avvenire; la tradizione dice pure un cammino in avanti, ma un cammino continuo, che si svolge in pari tempo tranquillo e vivace, secondo le leggi della vita, sfuggendo all'angosciosa alternativa: 'Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait!' [Se la gioventù sapesse, se la vecchiaia potesse]; simile a quel Signore di Turenne, di cui fu detto: 'Ha avuto nella sua gioventù tutta la prudenza di un'età avanzata, e nell'età avanzata tutto il vigore della gioventù' (Fléchier, Oraison funèbre, 1676). In forza della tradizione, la gioventù, illuminata e guidata dall'esperienza degli anziani, si avanza di un passo più sicuro, e la vecchiaia trasmette e consegna fiduciosa l'aratro a mani più vigorose che proseguono il solco cominciato. Come indica col suo nome, la tradizione è il dono che passa di generazione in generazione, la fiaccola che il corridore ad ogni cambio pone in mano e affida all'altro corridore, senza che la corsa si arresti o si rallenti. Tradizione e progresso s'integrano a vicenda con tanta armonia, che, come la tradizione senza il progresso contraddirebbe a se stessa, così il progresso senza la tradizione sarebbe una impresa temeraria, un salto nel buio. “No, non si tratta di risalire la corrente, di indietreggiare verso forme di vita e di azione di età tramontate, bensì, prendendo e seguendo il meglio del passato, di avanzare incontro all'avvenire con vigore di immutata giovinezza” (8). c) Importanza e legittimità delle élites tradizionali La ventata di demagogico ugualitarismo che pervade tutto il mondo contemporaneo crea un'atmosfera di antipatia verso le élites tradizionali. Ciò accade in buona misura appunto per via della fedeltà che hanno mantenuto alla tradizione. In questa antipatia viene commessa una grave ingiustizia, purché tali élites intendano rettamente la tradizione: “Ma così procedendo, la vostra vocazione splende già delineata, grande e laboriosa, che dovrebbe meritarvi la riconoscenza di tutti e rendervi superiori alle accuse che vi fossero rivolte dall'una o dall'altra parte. “Mentre voi mirate provvidamente ad aiutare il vero progresso verso un avvenire più sano e felice, sarebbe ingiustizia ed ingratitudine il farvi rimprovero e segnarvi a disonore il culto del passato, lo studio della sua storia, l'amore delle sante costumanze, la fedeltà irremovibile ai princìpi eterni. Gli esempi gloriosi o infausti di coloro, che precedettero l'età presente, sono una lezione e un lume dinanzi ai vostri passi; e già fu detto a ragione che gli insegnamenti della storia fanno dell'umanità un uomo sempre in cammino e che mai non invecchia. Voi vivete nella società moderna non quasi come emigranti in Paese straniero, ma come benemeriti e insigni cittadini, che intendono e vogliono lavorare e collaborare coi loro contemporanei, affine di preparare il risanamento, la restaurazione e il progresso del mondo” (9).
4. La benedizione di Dio illumina, protegge e bacia tutte le culle, ma non le livella Un altro fattore di ostilità verso le élites tradizionali poggia sul preconcetto rivoluzionario secondo cui qualsiasi disuguaglianza di nascita sarebbe contraria alla giustizia. Generalmente si ammette che un uomo possa distinguersi per il proprio merito personale, ma non si ammette che il fatto di discendere da una stirpe illustre sia per lui un titolo speciale di onore e di influenza. A questo riguardo, il Santo Padre Pio XII ci dà un prezioso insegnamento: “Le ineguaglianze sociali, anche quelle legate alla nascita, sono inevitabili: la natura benigna e la benedizione di Dio all'umanità illuminano e proteggono le culle, le baciano, ma non le pareggiano. Guardate pure le società più inesorabilmente livellate. Nessun'arte ha mai potuto operare tanto che il figlio di un gran Capo, di un gran conduttore di folle, restasse in tutto nel medesimo stato di un oscuro cittadino perduto tra il popolo. Ma se tali ineluttabili disparità possono paganamente apparire un’inflessibile conseguenza del conflitto delle forze sociali e della potenza acquisita dagli uni sugli altri, per le leggi cieche che si stimano reggere l'attività umana e metter capo al trionfo degli uni, come al sacrificio degli altri; da una mente invece cristianamente istruita ed educata esse non possono considerarsi se non quale disposizione voluta da Dio con il medesimo consiglio delle ineguaglianze nell'interno della famiglia, e quindi destinate a unire maggiormente gli uomini tra loro nel viaggio della vita presente verso la patria del cielo, gli uni aiutando gli altri, a quel modo che il padre aiuta la madre e i figli” (10).
5. Concezione paterna della superiorità sociale Gloria cristiana delle élites tradizionali è servire non solo la Chiesa ma anche il bene comune. L'aristocrazia pagana si vantava soltanto della sua illustre progenitura, ma la nobiltà cristiana unisce a questo titolo un altro ancora più elevato: quello di esercitare una funzione paterna verso le altre classi. “Il nome di Patriziato romano sveglia nel nostro spirito pensiero e visione di storia ancor più grandi. Se il termine di patrizio, patricius, nella Roma pagana, significava il fatto di avere degli antenati, di appartenere non ad una discendenza di grado comune, ma ad una classe privilegiata e dominante; nella luce cristiana prende aspetto più luminoso e risuona più profondo, in quanto associa l'idea di superiorità sociale a quella di illustre paternità. Esso è un patriziato della Roma cristiana, che ebbe i suoi fulgori più alti e antichi, non già nel sangue, ma nella dignità di protettori di Roma e della Chiesa: patricius Romanorum, titolo portato dal tempo degli Esarchi di Ravenna fino a Carlomagno e ad Enrico III. Armati difensori della Chiesa ebbero pure i Papi attraverso i secoli, usciti dalle famiglie del patriziato romano; e Lepanto ne segnò ed eternò un gran nome nei fasti della storia” (11). Certamente, dall'insieme di questi concetti emana un senso di paternità che impregna le relazioni tra le classi più alte e quelle più umili. Contro questa impressione, si presentano facilmente due obiezioni all'animo dell'uomo “moderno”. Da un lato, non mancano quelli che affermano che numerosi atti di oppressione praticati nel passato dalla nobiltà o dalle élites similari smentiscono tutta questa dottrina. Dall'altro, molti ritengono che qualsiasi affermazione di superiorità elimini dai rapporti sociali il buon senso, la soavità, la gaiezza cristiani. Infatti, sostengono, qualsiasi superiorità suscita normalmente sentimenti di umiliazione, di afflizione e di dolore in colui sul quale viene esercitata; e suscitare tali sentimenti nel prossimo è contrario alla dolcezza evangelica. Pio XII risponde implicitamente a queste obiezioni quando afferma: “Se questa concezione paterna della superiorità sociale talvolta, per l'urto delle passioni umane, sospinse gli animi a deviazioni nei rapporti delle persone di rango più elevato con quelle di condizione più umile, la storia dell'umanità decaduta (12) non se ne meraviglia. Tali deviazioni non valgono a diminuire o ad offuscare la verità fondamentale che per il cristiano le disuguaglianza sociali si fondono in una grande famiglia umana; quindi le relazioni tra classi e ranghi ineguali hanno da rimanere governate da una proba e pari giustizia, e, ad un tempo, animate di rispetto e di affezione mutua, che, pur senza sopprimere le disparità, ne scemino le distanze e ne temperino i contrasti” (13). Esempi tipici di questa affabilità di tratto tipica dell'aristocrazia si trovano in molte famiglie nobili che sanno essere eccellentemente benevole verso i propri subordinati, senza acconsentire in alcun modo che venga negata o avvilita la loro naturale superiorità: “Nelle famiglie veramente cristiane non vediamo noi forse i più grandi fra i patrizi e le patrizie vigili e solleciti di conservare verso i loro domestici e tutti quelli che li circondano, un comportamento, consentaneo senza dubbio al loro rango, ma scevro di ogni sussiego, atteggiato a benevolenza e cortesia di parole e di modi, che dimostrano la nobiltà di cuori i quali vedono in essi uomini, fratelli, cristiani come loro, a sé uniti in Cristo coi vincoli della carità? Di quella carità, che anche nei palazzi aviti, fra i grandi e gli umili, massime nelle ore di mestizia e di dolore che non è mai che manchino quaggiù, conforta, sostiene, allieta e addolcisce la vita?” (14).
6. Nostro Signore Gesù Cristo ha consacrato la condizione di nobile non meno di quella di operai Considerata così la condizione di nobile, o di membro di una élite tradizionale, si comprende che Nostro Signore Gesù Cristo l'abbia santificata, come abbiamo già ricordato (15), incarnandosi in una famiglia principessa: “È un fatto che Cristo Nostro Signore, se elesse, per conforto dei poveri, di venire al mondo privo di tutto e di crescere in una famiglia di semplici operai, volle tuttavia col la sua nascita onorare la più nobile ed illustre delle case di Israele, la discendenza stessa di David. “Perciò, fedeli allo spirito di Colui, del quale sono vicari, i Sommi Pontefici hanno sempre tenuto in alta considerazione il Patriziato e la nobiltà romana, i cui sentimenti di inalterabile attaccamento a questa Sede Apostolica sono la parte più preziosa della eredità ricevuta dai loro avi e che essi stessi trasmetteranno ai loro figli” (16).
7. Perennità della nobiltà e delle élites tradizionali Come le foglie morte cadono per terra, così accade, sotto il turbine della Rivoluzione, agli elementi morti del passato. Tuttavia la nobiltà - in qualità di specie del genere élites - può e deve sopravvivere in quanto provvista di una permanente ragion d'essere: “Il soffio impetuoso di un nuovo tempo avvolge coi suoi vortici le tradizioni del passato. Ma tanto più esso palesa ciò che, come foglia morta, è destinato a cadere, e ciò che invece tende con genuina forza vitale a mantenersi e a consolidarsi. “Una nobiltà e un patriziato, che, per così dire, si anchilosassero nel rimpianto dei tempi trascorsi, si voterebbero ad un inevitabile declino. “Oggi più che mai, voi siete chiamati ad essere una élite non solo del sangue e della stirpe, ma anche più delle opere e dei sacrifici, delle attuazioni creatrici nel servizio di tutta la comunanza sociale. “E questo non è soltanto un dovere dell'uomo e del cittadino, a cui niuno può sottrarsi impunemente, ma anche un sacro comandamento della fede, che avete ereditata dai vostri padri e che dovete, dopo di loro, lasciare, integra ed inalterata, ai vostri discendenti. “Bandite dunque dalle vostre file ogni abbattimento e ogni pusillanimità: ogni abbattimento, di fronte ad una evoluzione dei tempi, la quale porta via con se molte cose, che altre epoche avevano edificate; ogni pusillanimità, alla vista dei gravi eventi, che accompagnano le novità dei nostri giorni. “Essere romano: significa essere forte nell'operare, ma anche nel sopportare. “Essere cristiano: significa andare incontro alle pene e alle prove, ai doveri e alle necessità del tempo, con quel coraggio, con quella fortezza e serenità di spirito, che attinge alla sorgente delle eterne speranze l'antidoto contro ogni umano sgomento. “Umanamente grande è il fiero detto di Orazio: 'Si fractus illabatur orbis, impavidum ferient ruinae' [Anche se il mondo si frantumasse, le sue rovine ferirebbero l'uomo, ma non lo scuoterebbero] (Od. 3, 3). “Ma quanto più bello, più fiducioso e beatificante è il grido vittorioso, che sgorga dalle labbra cristiane e dai cuori traboccanti di fede: 'Non confundar in aeternum!',(Te Deum)” (17).
8. La legge non può abolire il passato Si comprende così perché, a dispetto della proclamazione della Repubblica nell'Italia del 1946, il Santo Padre Pio XII abbia mantenuto il Patriziato e la Nobiltà romana come insigne memoria di un passato che dev'essere conservato negli aspetti che assicurano la continuità di una tradizione benefica e illustre: “È ben vero che nella nuova Costituzione d'Italia 'i titoli nobiliari non sono riconosciuti' (salvo, naturalmente, a norma dell'articolo 42 del Concordato per ciò che riguarda la Santa Sede, quelli conferiti o da conferirsi in avvenire dai Sommi Pontefici) (18); ma la Costituzione stessa non ha potuto annullare il passato, né la storia delle vostre famiglie” (19). Nel riferimento esplicito e diretto fatto da Pio XII all'abolizione dei titoli nobiliari compiuta dalla Repubblica italiana, non appare alcun giudizio di valore. Il Papa semplicemente constata il fatto dell'abolizione. Ma, pari passu, egli afferma con nobile disinvoltura che la Chiesa, invece di seguire l'esempio dell'Italia repubblicana, riserva per sé tutta la validità dei titoli nobiliari da essa conferiti in passato, o che volesse conferire in futuro, e che questa validità continua ad essere in vigore, anche nel territorio della Repubblica italiana, in virtù dell'art. 42 del Trattato Lateranense (20). Il che è evidente,in quanto un articolo della Costituzione italiana non poteva interrompere unilateralmente la validità dei titoli nobiliari pontifici, riconosciuti da un atto bilaterale qual'è il Concordato del 1929 (21). Continua quindi a permanere per il Patriziato e la Nobiltà romana un grave e magnifico dovere, risultante dal prestigio che amici e nemici debbono riconoscere loro: “Quindi anche ora il popolo - sia esso a voi favorevole o contrario, abbia per voi una rispettosa fiducia o sentimenti ostili - guarda ed osserva quale esempio voi date nella vostra vita. A voi dunque spetta di rispondere a tale attesa e di mostrare in qual modo la vostra condotta e i vostri atti siano conformi a verità e a virtù, particolarmente nei punti che abbiamo sopra ricordati nelle Nostre raccomandazioni” (22). È considerando ciò che la Nobiltà fu nel passato, e vedendo in questa memoria non qualcosa di morto ma un “impulso per l'avvenire”, che Pio XII, “mosso da motivi di onore e di fedeltà” (23), conserva per essa, perfino nelle circostanze attuali, un trattamento speciale di distinzione e invita l'uomo moderno ad associarsi a questo atteggiamento: “Noi salutiamo in voi i discendenti e i rappresentanti di famiglie, che si segnalarono già nel servizio della Santa Sede e del Vicario di Cristo e rimasero fedeli al Pontificato Romano, anche quando questo era esposto ad oltraggi ed a persecuzioni. Senza dubbio, nel corso del tempo, l'ordine sociale ha potuto evolversi e il suo centro spostarsi; i pubblici uffici, che una volta erano riservati alla vostra classe, possono ora essere attribuiti ed esercitati sopra una base di eguaglianza; tuttavia ad un tale attestato di riconoscente memoria - che deve altresì valere d'impulso per l'avvenire – anche l'uomo moderno, se vuole essere di retti ed equanimi sentimenti, non può negare comprensione e rispetto” (24).
9. La democrazia secondo la dottrina sociale della Chiesa - Due eccessi da evitare: archeologismo e falsa restaurazione Ci si può chiedere se Pio XII, con questi insegnamenti emessi in un'epoca in cui il più grossolano e completo desiderio di uguaglianza prevaleva dovunque, abbia cercato di reagire contro questa tendenza ugualitaria condannando la democrazia. Su tale questione bisogna fare alcune osservazioni. La dottrina sociale della Chiesa ha sempre affermato la legittimità delle tre forme di governo, sia la monarchica che la aristocratica che la democratica. D'altra parte, ha sempre rifiutato di accettare la teoria secondo cui l'unica forma di governo compatibile con la giustizia e la carità sarebbe quella democratica. Certo, san Tommaso d'Aquino insegna che, di principio, la monarchia costituisce una forma di governo superiore alle altre. Questo però non esclude che le circostanze concrete possano rendere più consigliabile l'aristocrazia o la democrazia in alcuni Stati. Ed egli vede di buon occhio le forme di governo in cui si articolano armonicamente elementi monarchici, aristocratici e democratici (25). A sua volta Leone XIII, nello spiegare la dottrina sociale della Chiesa sulle forme di governo, dichiara: “Teoricamente parlando, si potrebbe definire qual'è la migliore delle sue forme, considerate in se stesse” (26). Tuttavia, il Pontefice non dice quale sia questa forma. Eppure, bisogna notare il tono categorico di questa affermazione, benché essa sembra a prima vista essere condizionale: “si potrebbe definire”. Di fatto, ciò che il Pontefice intende dire è che è possibile, se il pensatore si mantiene nel mero terreno dei princìpi, definire quale sia la migliore forma di governo. In effetti egli aggiunge: “Si può ugualmente affermare, con piena verità, che ciascuna di esse è buona, purché sappia indirizzare direttamente al proprio fine, ossia al bene comune per il quale l'autorità sociale è costituita; bisogna infine aggiungere che, da un punto di vista relativo, tale o talaltra forma di governo può essere preferibile, se si adatta meglio al carattere ed ai costumi di questa o quella nazione” (27). Rimane da domandarsi quale sarebbe, secondo il pensiero del Pontefice, questa forma di governo da considerare come la migliore nel mero campo dei princìpi. Per rispondere a questa domanda, bisogna tener presente l'Enciclica Aeterni Patris del 4 agosto 1879 sulla restaurazione della Scolastica in conformità alla dottrina di san Tommaso d'Aquino. Fra molti altri elogi rivolti all'opera del grande Dottore della Chiesa, vengono menzionati questi: “È noto che quasi tutti i fondatori e legislatori degli ordini religiosi hanno comandato ai loro seguaci di studiare la dottrina di san Tommaso e di aderirvi religiosamente, stabilendo che a nessuno fosse lecito allontanarsi impunemente, per poco che fosse, dalle orme di un così grande Maestro. (...) “Per giunta, i Romani Pontefici Nostri predecessori hanno onorato la sapienza di Tommaso d'Aquino con singolari elogi e testimonianze amplissime. “Si aggiunga, (...) per completare, la testimonianza di Innocenzo VI: 'Paragonata con le altre, ad eccezione di quella canonica, la sua dottrina ha in tal modo, proprietà di linguaggio, ordine nelle materie, verità nelle sentenze, che a colui che la segue non accadrà mai di allontanarsi dal cammino della verità, mentre colui che l'impugna sarà sempre sospetto di errore' (Sermone su san Tommaso d'Aquino) (...) “Ma la maggior gloria appunto di Tommaso (...) consiste nel fatto che i Patri tridentini, per stabilire l'ordine nello stesso Concilio, vollero che, assieme con i libri della Scrittura e i decreti dei Sommi Pontefici, fosse in vista sull'altare la Somma di san Tommaso d'Aquino, alla quale domandare consigli, argomenti e oracoli” (28). Non bisogna supporre che, in questo campo, il pensiero di Leone XIII differisca da quello di san Tommaso. Al riguardo, è degna di speciale attenzione la seguente frase dello stesso Pontefice: “Noi non abbiamo mai voluto aggiungere niente né alle sentenze dei grandi Dottori sul valore delle diverse forme di governo, né alla dottrina cattolica ed alla tradizione di questa Sede Apostolica sul grado dell'obbedienza dovuta ai poteri costituiti” (29). D'altronde, essendo la democrazia il governo del popolo, ed essendo il concetto della dottrina sociale della Chiesa sul popolo profondamente diverso da quello neopagano corrente - nel quale per popolo s'intende solo la massa - è evidente che lo stesso concetto cattolico di democrazia differisce profondamente da ciò che generalmente s'intendendo come tale (30). Di fronte alla valanga ugualitaria, Pio XII - senza manifestare preferenze politiche - cerca di prendere la tendenza democratica per quello che è, e cerca di guidarla in modo da evitare danni al corpo politico-sociale. Lo fa quando, durante la ricostruzione dell'Italia del dopoguerra, dà questo consiglio alla nobiltà romana: “Tutti generalmente ammettono che questa riorganizzazione non può essere concepita come un puro e semplice ritorno al passato. Un simile regresso non è possibile; pur nel suo moto spesso disordinato, con esso, senza unità né coerenza, il mondo ha continuato a camminare; la storia non si arresta, non può arrestarsi; essa avanza sempre, proseguendo la sua corsa, ordinata e rettilinea ovvero confusa e contorta, verso il progresso ovvero verso una illusione di progresso” (31). Nel ricostruire una società, come nel rifare un edificio, bisogna evitare due errori estremi: la ricostruzione meramente archeologica e la costruzione di un edificio interamente diverso, ossia una ricostruzione che non sarebbe tale. Dice il Pontefice: “Come non si potrebbe concepire a modo di una ricostituzione archeologica la ricostruzione di un edificio, che deve servire ad usi odierni, così essa neppure sarebbe possibile secondo disegni arbitrari, anche se fossero teoricamente i migliori e i più desiderabili; occorre tener presente la imprescindibile realtà, la realtà in tutta la sua estensione” (32).
10. Istituzioni altamente aristocratiche sono necessarie anche nelle democrazie Ora, sebbene la Chiesa non pretenda distruggere la democrazia, desidera però che questa venga bene intesa e che ne risulti netta la distinzione tra il concetto cristiano e quello rivoluzionario. Giunge qui a proposito ricordare, al riguardo, quanto insegna Pio XII sul carattere tradizionale e sul tonus aristocratico della democrazia veramente cristiana: “Già in altra occasione Noi abbiamo parlato delle condizioni necessarie, acciò che il popolo sia maturo per una sana democrazia. Ma chi può condurlo ed elevarlo a questa maturità? Senza dubbio molti insegnamenti potrebbe la Chiesa a tale riguardo trarre dal tesoro delle sue esperienze e della sua propria azione civilizzatrice. Ma la vostra presenza qui Ci suggerisce una particolare osservazione. Per testimonianza della storia, là ove vige una vera democrazia, la vita del popolo è come impregnata di sane tradizioni, che non è lecito di abbattere. Rappresentanti di queste tradizioni sono anzitutto le classi dirigenti, ossia i gruppi di uomini e donne o le associazioni, che danno, come suol dirsi, il tono nel villaggio e nella città, nella regione o nell'intero Paese. “Di qui, in tutti i popoli civili, l'esistenza e l'influsso d'istituzioni, eminentemente aristocratiche nel senso più alto della parola, come sono talune accademie di vasta e ben meritata rinomanza. Anche la nobiltà è del numero: senza pretendere alcun privilegio e monopolio, essa è o dovrebbe essere una di quelle istituzioni; istituzione tradizionale, fondata sulla continuità di un'antica educazione. Certo, in una società democratica, qual vuole essere la moderna, il semplice titolo della nascita non è più sufficiente ad acquistare autorità e credito; per conservare quindi degnamente la vostra elevata condizione e il vostro grado sociale, anzi per aumentarlo e innalzarlo, voi dovete essere veramente un'élite, dovete adempire le condizioni e corrispondere alle esigenze indispensabili nel tempo in cui ora viviamo” (33). Una nobiltà o una élite tradizionale - il cui ambiente sia brodo di coltura per la formazione di elevate qualità dell'intelligenza, della volontà e della sensibilità, e che basa il proprio prestigio sul merito di ogni generazione sopraggiungente - non è quindi, secondo Pio XII, un fattore eterogeneo e contraddittorio in una democrazia veramente cristiana, ma un suo prezioso elemento. Abbiamo così visto fino a che punto la democrazia autenticamente cristiana differisce da quella ugualitaria, predicata dalla Rivoluzione, nella quale la distruzione di tutte le élites - e fra queste specialmente la nobiltà - è considerata come condizione essenziale di autenticità democratica (34). Note: 1) PNR 1947, pp. 370-371. 2) PNR 1941, p. 364. 3) È tale l'importanza di questo testo che abbiamo citato, che meriterebbe di essere messo in rilievo dall'inizio alla fine con caratteri grafici speciali. Non l'abbiamo fatto solo per non sovraccaricare visualmente la presentazione di queste pagine. 3) Cfr. Documenti VI. 4) PNR 1944, pp. 177-178. 5) PNR 1942, p. 345. 6) PNR 1944, p. 178. 7) Il termine “Rivoluzione” è qui impiegato nel senso attribuitogli nel mio saggio “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”. Esso designa un processo iniziato nel secolo XV tendente a distruggere la Civiltà cristiana e stabilire un ordinamento diametralmente opposto. Fasi di questo processo sono state la pseudo-Riforma protestante, la Rivoluzione francese e il Comunismo nelle sue molteplici varianti e nella sua sottile metamorfosi del nostro tempo. 8) PNR 1944, pp. 178-180; Cfr. Documenti VI. 9) PNR 1944, p. 180. Non pensi il lettore che, con questo saggio consiglio, Pio XII ometta i gravi pericoli derivanti dalla sopravvalutazione della tecnica moderna. Infatti ecco quanto insegna al riguardo: “Tuttavia sembra innegabile che la stessa tecnica, giunta nel nostro secolo all'apogeo dello splendore e del rendimento, si tramuti per circostanze di fatto in un grave pericolo spirituale. Essa sembra comunicare all'uomo moderno, prono davanti al suo altare, un senso di autosufficienza e di appagamento delle sue aspirazioni di conoscenza e di potenza sconfinate. Con il suo molteplice impiego, con l'assoluta fiducia che riscuote, con le inesauribili possibilità che promette, la tecnica moderna dispiega intorno all'uomo contemporaneo una visione così vasta da essere confusa da molti con l'infinito stesso. Le si attribuisce per conseguenza una impossibile autonomia, la quale a sua volta si trasforma nel pensiero di alcuni in un'errata concezione della vita e del mondo, designata con nome di 'spirito tecnico', ma in che cosa questo esattamente consiste? In ciò, che si considera come il più alto valore umano e della vita trarre il maggior profitto dalle forze e dagli elementi della natura; che si fissano come scopo, a preferenza di tutte le altre attività umane, i metodi tecnicamente possibili di produzione meccanica, e che si vede in essi la perfezione della cultura e della felicità terrena” (Radiomessaggio natalizio al mondo del 1953, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Tipografia Poliglotta Vaticana, vol. XV, p. 522). 10) PNR 1942, p. 347. 11) PNR 1942, pp. 346-347. 12) Il Pontefice qui allude alla decadenza del genere umano provocata dal peccato originale. 13) PNR 1942, pp. 347-348. 14) PNR 1942, p. 348. 15) Cfr. Capitolo IV, 8. 16) PNR 1941, pp. 363-364; Cfr. Documenti IV. 17) PNR 1951, pp. 423-424. 18) Cfr. Capitolo II, 1. 19) PNR 1949, p. 346. 20) Cfr. Capitolo II, 1. 21) A proposito dell'abolizione radicale e sommaria di una così antica e benemerita istituzione qual'è quella nobiliare, evidentemente fatta sotto la forza d'urto dell'ugualitarismo che ha soffiato in tanti Paesi, nel secondo dopoguerra come nel primo, bisogna lamentarsi del fatto che non sia stato preso in nessuna considerazione quest'insegnamento di alta sapienza di san Tommaso d'Aquino, che si trova nella Summa Theologica (I-II, q. 97, a. 2) sotto il titolo “Se la legge umana deve modificarsi ogni volta che si prospetta un bene maggiore”: “Sta scritto nelle Decretali che 'è un assurdità ed un affronto estremamente abominevole tollerare la distruzione delle tradizioni ricevute fin dall'antichità dai nostri antenati'. “Come abbiamo già detto, la legge viene modificata a buon diritto solo se questo mutamento contribuisce al bene comune. Infatti, il semplice mutamento di una legge costituisce già, per se stesso, un danno al bene comune. Il costume contribuisce molto all'adempimento delle leggi, a tal punto che si ritengono gravi tutte le cose stabilite contro i costumi, nonostante che siano lievi in se stesse. Perciò, quando viene modificata una legge, il suo potere coattivo viene sminuito, nella misura in cui contraddice al costume. Ne deriva che non bisogna modificare una legge umana, a meno che vi sia d'altra parte una compensazione proporzionata in favore del bene comune, correlativa alla parte derogata dalla legge. Questo accade o quando la nuova disposizione di legge provoca un vantaggio molto grande e notorio, oppure in caso di estrema necessità, oppure quando la legge vigente conteneva una evidente iniquità e la cui applicazione era sommamente nociva. Dice pertanto il Giureconsulto che, 'nello stabilire nuove norme, la loro utilità deve essere evidente, perché sia giustificato abbandonare ciò che per molto tempo fu considerato come equo”'. 22) PNR 1949, p. 346. 23) PNR 1950, p. 357. 24) PNR 1950, p. 357. 25) Per ben comprendere quanto abbiamo esposto sulla dottrina della Chiesa e del pensiero di san Tommaso d'Aquino sulle diverse forme di governo, è di capitale importanza la lettura dei testi pontifici e di quelli del santo Dottore della Chiesa riportati nell'Appendice II, corredati dai nostri commenti. 26) Au milieu des sollicitudes, in Acta Sanctae Sedis, Ex Typographia Polyglotta, Romae 1891-1892, vol. XXIV, p.523. 27) Ibidem. 28) Acta Sanctae Sedis, ex Typographia Polyglotta, Romae 1894, vol. XII, pp. 109-110. 29) Lettera “Nous avons reçu” al cardinale Matthieu del 28 marzo 1897, in La Pace interna delle nazioni, Edizioni Paoline, II edizione, Roma 1959, p. 238. 30) Cfr. Capitolo III. 31) PNR 1945, p. 274. 32) PNR 1945, p. 274. 33) PNR 1946, pp. 340-341. 34) Sulla legittimità e la necessità dell'esistenza di una nobiltà in una società autenticamente cattolica, si veda il sostanzioso schema che, sotto il titolo di “Aristocrazia”, fu pubblicato nell'importante opera omeletica elaborata sotto la direzione del cardinale Angel Herrera Oria, trascritto e commentato nell'Appendice III di questo studio. |