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Plinio Corrêa de Oliveira
Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana
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CAPITOLO IV La nobiltà in una società cristiana – Perpetuità della sua missione e del suo prestigio nel mondo contemporaneo
L’insegnamento di Pio XII
1. Clero, nobiltà e popolo Nel Medioevo, la società era costituita da queste tre classi, ciascuna delle quali con incarichi, privilegi e onori speciali. Al di là di questa divisione tripartita esisteva in quella società una netta distinzione tra governanti e governati, inerente all'intero corpo sociale, soprattutto all'interno di una Nazione. Al governo tuttavia partecipavano non solo il Re, ma anche il clero, la nobiltà e il popolo, ciascuno a suo modo e in proporzione. Com'è noto, la Chiesa e lo Stato costituiscono entrambi società perfette, distinte l'una dall'altra e ciascuna sovrana nel proprio campo: la Chiesa in quello spirituale e lo Stato in quello temporale. Questa distinzione non impedisce tuttavia che il clero possa partecipare alla funzione governativa nello Stato. Per capirne il motivo, è bene ricordare brevemente in che consiste la missione specificamente spirituale e religiosa che primariamente lo riguarda. Dal punto di vista spirituale, il clero è l'insieme di persone alle quali incombe il dovere, nella Chiesa di Dio, di insegnare, governare e santificare; mentre ai semplici fedeli tocca di essere istruiti, governati e santificati. Questo è l'ordinamento gerarchico della Chiesa. Numerosi sono i documenti del Magistero ecclesiastico che stabiliscono questa distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente. Lo afferma, per esempio, san Pio X nell'Enciclica Vehementer Nos: “La Scrittura c'insegna, e la Tradizione dei padri ce lo conferma, che la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo, Corpo diretto da Pastori e Dottori - società pertanto di uomini, in cui alcuni presiedono agli altri con pieno e perfetto potere di governare, d'insegnare e giudicare. Quindi è una società per sua natura disuguale; cioè comprende un duplice ordine di persone: i Pastori e il gregge, ossia quelli che sono posti nei vari gradi della Gerarchia e la moltitudine dei fedeli. Questi due ordini sono talmente diversi che soltanto nella Gerarchia risiede il diritto e l'autorità di orientare e dirigere gli associati al fine della società, mentre il dovere della moltitudine sta nel lasciarsi governare e seguire con ubbidienza la direzione di quelli che la reggono” (1). Questa distinzione nella Santa Chiesa tra gerarchia e fedeli, governanti e governati, è affermata anche in più di un documento del Concilio Vaticano II: “Se quindi i laici, per disegno divino, hanno Gesù Cristo per fratello (...),così anche hanno per fratelli coloro che, costituiti nel sacro ministero, insegnando, santificando e governando con l'autorità di Cristo, pascono la famiglia di Dio” (Lumen Gentium, § 32). “I laici cerchino, come gli altri fedeli, di accettare con prontezza e cristiana ubbidienza tutto quanto i sacri Pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono nella Chiesa agendo in quanto maestri e governanti” (Lumen Gentium, § 37). “Ognuno dei Vescovi, ai quali è stata affidata la cura di ogni chiesa particolare, sotto l'autorità del Sommo Pontefice, in qualità di pastori, ordinari e immediati, pascono le loro pecore in nome del Signore, esercitando su di esse il proprio ufficio di insegnare, santificare e governare” (Christus Dominus, § 11) (2).
Il Concilio Vaticano II confermò la distinzione – fatta da innumerevoli documenti del Magistero ecclesiastico – tra Chiesa docente e Chiesa discente, mettendo in rilievo la visione che spetta alla Gerarchia ecclesiastica “di insegnare, santificare e governare” (cfr. Christus Dominus, 11) Per l'esercizio del sacro ministero, spetta al clero innanzitutto la missione eccelsa e specificamente religiosa di provvedere alla salvezza e santificazione delle anime. Questa missione produce nella società temporale - come ha sempre prodotto e produrrà, fino alla consumazione dei secoli - un effetto sommamente benefico. Infatti santificare le anime comporta impregnarle dei principi della morale cristiana e guidarle nell'osservanza della Legge di Dio. Ora, un popolo ricettivo a questa influenza della Chiesa si trova ipso facto predisposto idealmente a ordinare le sue attività temporali in modo da condurle con sicurezza ad un alto grado di abilità, di efficacia e di fioritura. È celebre l'immagine, delineata da Sant'Agostino di una società in cui tutti i membri siano buoni cattolici. Immaginate - dice - “un esercito costituito da soldati come li forma la dottrina di Gesù Cristo, governatori, mariti, coniugi, genitori, figli, padroni, servi, Re, giudici, contribuenti ed esattori come li vuole la dottrina cristiana! Osino poi [i pagani] dire ancora che questa dottrina è opposta agli interessi dello Stato! Al contrario, bisogna riconoscere senza esitare che essa è una grande salvaguardia per lo Stato, quando viene osservata fedelmente” (3). In questa prospettiva, toccava al clero porre e stabilire gli stessi fondamenti morali della civiltà perfetta, che è quella cristiana. Pertanto, l'insegnamento e le opere di assistenza e di carità, erano a carico della Chiesa, che svolgeva in tal modo, senza oneri per le casse pubbliche, i servizi abitualmente affidati, negli Stati laici contemporanei, ai Ministeri dell'Istruzione e della Sanità. Si comprende così perché il clero, per lo stesso carattere soprannaturale e sacro della sua missione spirituale, come anche per i fondamentali ed essenziali effetti del retto esercizio di questa missione sulla società temporale, sia stato riconosciuto come la prima classe della società. D'altra parte, il clero, essendo nell'esercizio della sua altissima missione indipendente da ogni potere temporale e terreno, è un fattore attivo nella formazione dello spirito, della mentalità della Nazione. Fra clero e Nazione esiste normalmente una vicendevole comprensione, fiducia e affetto che dà al primo possibilità ineguagliabili di conoscere e orientare le aspirazioni, le preoccupazioni, le sofferenze, insomma i sentimenti della popolazione; come pure gli aspetti della sua vita temporale che ne sono inseparabili. Riconoscere al clero diritto di parola e di voto nelle grandi e decisive assemblee nazionali è quindi, per lo Stato, un mezzo prezioso di auscultare i battiti del cuore. Si comprende così perché, pur mantenendo la sua identità di fronte alla vita politica del Paese, durante la Storia elementi del clero siano stati frequentemente, per il potere politico, consiglieri ascoltati e rispettati, collaboratori validi nell'elaborazione di certe materie legislative e di certi orientamenti di governo. Ma il quadro dei rapporti tra i clero e il potere politico non si limita a questo. Il clero non è una società di angeli viventi nel Cielo, ma una società di uomini che, come ministri di Dio, vivono e agiscono in concreto su questa terra. Posto ciò, il clero fa parte della popolazione del Paese; di fronte ai suoi membri ha diritti e doveri specifici. La protezione di questi diritti, il retto compimento di questi doveri sono della massima importanza per entrambe le società perfette, ossia per la Chiesa e per lo Stato. Lo afferma con eloquenza Leone XIII nell'Enciclica Immortale Dei (4). Tutto questo mostra che il clero si distingue dalle altre componenti della Nazione come una classe sociale perfettamente definita che è parte viva dell'insieme del Paese e, in quanto tale, ha diritto di parola nella vita pubblica (5). Al clero seguiva, come seconda classe, la nobiltà. Essa aveva essenzialmente un carattere militare e guerriero. Le spettava la difesa del Paese dalle aggressioni esterne e la difesa dell'ordinamento politico e sociale. Oltre a ciò, nelle loro terre, i signori feudali esercitavano contemporaneamente, senza oneri per la Corona, funzioni in qualche modo analoghe a quelle dei presidenti delle Camere, dei giudici e dei commissari di polizia odierni. Come si vede, queste due classi erano fondamentalmente ordinate al bene comune e, come ricompensa dei loro gravi e specifici incarichi, avevano diritto a onori e vantaggi corrispondenti; fra questi, l'esenzione dalle imposte. A sua volta, il popolo era la classe dedicata al lavoro produttivo. Erano suoi privilegi il partecipare alla guerra in una misura molto minore che la nobiltà, e, quasi sempre, l'avere l'esclusiva dell'esercizio delle professioni più redditizie, come il commercio e l'industria. I suoi membri non avevano normalmente nessun obbligo speciale verso lo Stato. Essi lavoravano per il bene comune soltanto nella misura in cui ognuno favoriva i suoi legittimi interessi personali e famigliari. Per questo era la classe non favorita da speciali onorificenze e sulla quale ricadeva di conseguenza l'onere delle imposte. “Clero, nobiltà e popolo”. Questa trilogia fa venire il mente in maniera naturale le assemblee rappresentative che caratterizzavano il funzionamento di molte monarchie del periodo medioevale e dell'Ancien Régime: le Cortes in Portogallo e in Spagna, gli Stati Generali in Francia, il Parlamento in Inghilterra, etc. In queste assemblee c'era una rappresentanza nazionale autentica che rispecchiava fedelmente l’organicità sociale. Nell'Epoca dei Lumi, nuove teorie di filosofia politica e sociale cominciarono a conquistare certe classi dirigenti dei Paesi europei. Allora, per effetto di una malintesa nozione di libertà, il Vecchio Continente cominciò ad avviarsi verso la distruzione dei corpi intermedi, la totale laicizzazione dello Stato e della Nazione, e la formazione di società anorganiche, rappresentate da un criterio unicamente quantitativo: il numero dei voti. Questa trasformazione, che dalle ultime decadi del secolo XVIII si estese fino ai nostri giorni, ha facilitato pericolosamente il fenomeno del decadimento del popolo a massa, così saggiamente descritto da Pio XII.
2. Decadenza dell'ordinamento medioevale nei tempi moderni Come abbiamo detto nel capitolo II, questa organizzazione della società, contemporaneamente politica, sociale ed economica, si è dissolta nel corso dei tempi moderni (secoli XV-XVIII). A partire da allora, le successive trasformazioni politiche e socioeconomiche hanno teso a confondere tutte le classi e a negare interamente o quasi interamente al clero ed alla nobiltà il riconoscimento di una situazione giuridica speciale. Dura contingenza davanti alla quale queste classi non devono chiudere gli occhi con pusillanimità, poiché questo sarebbe indegno sia di veri ecclesiastici che di veri nobili. Pio XII, in una delle sue magistrali allocuzioni al Patriziato ed alla Nobiltà romana, descrive questo stato di cose con impressionante precisione: “In primo luogo, guardate intrepidamente, coraggiosamente, la realtà presente. Ci sembra superfluo d'insistere per richiamare alla vostra mente ciò che, or sono tre anni, fu l'oggetto delle Nostre considerazioni; Ci parrebbe vano e poco degno di voi il velarlo con prudenti eufemismi, specialmente dopo che le parole del vostro eloquente interprete Ci hanno reso una così chiara testimonianza della vostra adesione alla dottrina sociale della Chiesa e ai doveri che da essa derivano. La nuova Costituzione d'Italia non vi riconosce più, come classe sociale, nello Stato e nel popolo, alcuna particolare missione, alcun attributo, alcun privilegio” (6). Questa situazione, osserva il Pontefice, è il punto terminale di tutto un lungo concatenamento di fatti che dà l'impressione di un certo qual “fatale andare” (7). Di fronte alle “assai diverse forme di vita” (8) che oggi si costituiscono, i membri della nobiltà e delle élites tradizionali non debbono perdersi in inutili lamentele né ignorare la realtà, ma, al contrario, prendere chiaramente posizione davanti ad esse. Questo è il comportamento tipico delle persone di valore: “Mentre i mediocri nell'avversa fortuna non fanno che tenere il broncio, gli spiriti superiori sanno, secondo l'espressione classica, ma in un senso più elevato, mostrarsi 'beaux joueurs' (9), conservando imperturbabilmente il loro portamento nobile e sereno” (10).
3. La nobiltà deve mantenersi come classe dirigente nel contesto sociale, profondamente trasformato, del mondo attuale Concretamente, in cosa consiste questo riconoscimento oggettivo e virile di condizioni di vita sulle quali “si può pensare come si vuole” (11) - e che quindi in nessun modo si è obbligati ad applaudire - ma che costituiscono una realtà palpabile nella quale si è obbligati a vivere? La nobiltà e le élites tradizionali hanno perso la loro ragione di esistere? Devono rompere con le loro tradizioni, col loro passato? Insomma, devono dissolversi nella plebe, confondendosi con essa, spegnendo tutto ciò che le famiglie nobili conservano di alti valori di virtù, di cultura, di stile e di educazione? Una lettura affrettata dell'allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 1952 parrebbe condurre ad una risposta affermativa. Questa risposta però sarebbe in palese disaccordo con quanto insegnano analoghe allocuzioni pronunciate in anni precedenti, come pure con passi di più di un'allocuzione dei Pontefici posteriori a Pio XII. Questo apparente disaccordo risulta specialmente dai passi sopra citati, come pure da altri che lo saranno più avanti (12). Eppure non è questo il pensiero del Pontefice, espresso nella stessa allocuzione del 1952. Secondo lui, le élites tradizionali devono continuare ad esistere e a svolgere un'alta missione: “Può ben essere che l'uno o l'altro punto nel presente stato di cose vi dispiaccia. Ma nell'interesse e per l'amore del bene comune, per la salvezza della civiltà cristiana, nella crisi che, lungi dall'attenuarsi, sembra piuttosto andare crescendo, state fermi sulla breccia, nella prima linea di difesa. Le vostre qualità particolari possono trovare là anche oggi ottimo impiego. I vostri nomi, che risuonano altamente nei ricordi fin del lontano passato, nella storia della Chiesa e della società civile, richiamano alla memoria figure di uomini grandi e fanno echeggiare nelle vostre anime la voce ammonitrice del dovere di mostrarvene degni” (13). Tuttavia, ciò risulta ancor più chiaramente nell'allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 1958, in un passo parzialmente già citato (14): “Voi che, all'inizio degli anni nuovi, non mancavate di renderci visita, ricordate certamente la premurosa sollecitudine, con cui Ci adoperammo per spianarvi la via verso l'avvenire, che si annunziava fin da allora aspra per i profondi sconvolgimento e le trasformazioni incombenti sul mondo (...). Ricorderete in particolare ai figli ed ai nipoti come il papa della vostra infanzia e fanciullezza non omise di indicarvi i nuovi uffici che imponevano alla nobiltà le mutate condizioni dei tempi; che, anzi, più volte vi spiegò come la laboriosità sarebbe stata il titolo più solido e degno per assicurarvi la permanenza tra i dirigenti della società; che le disuguaglianze sociali, mentre vi ponevano in alto, vi prescrivevano particolari doveri a vantaggio del bene comune; che dalle classi più elevate potevano discendere nel popolo grandi vantaggi o gravi danni; che i mutamenti delle forme di vita possono, ove si voglia, accordarsi armonicamente con le tradizioni, di cui le famiglie patrizie sono depositarie” (15). Il Pontefice quindi non auspica la scomparsa della nobiltà dal contesto sociale profondamente trasformato nel nostro tempo. Al contrario, invita i suoi membri a intraprendere gli sforzi necessari per mantenersi nella posizione di classe dirigente, anche nell'ampio quadro delle categorie alle quali spetta guidare il mondo attuale. E, in questo desiderio, egli lascia trasparire una sfumatura peculiare: la permanenza della nobiltà fra tali categorie svolga un orientamento tradizionale, abbia cioè il valore di una continuità, appunto il senso di una “permanenza”, ossia di una fedeltà a uno dei princìpi costitutivi della nobiltà nei secoli passati: il legame tra “le disuguaglianze sociali” che “vi ponevano in alto” e i suoi “particolari doveri a vantaggio del bene comune”. Così, “i mutamenti delle forme di vita possono, ove si voglia, accordarsi armonicamente con le tradizioni, di cui le famiglie patrizie sono depositarie”. Pio XII insiste sulla permanenza della nobiltà nel mondo postbellico, purché essa si dimostri veramente insigne per le qualità morali che devono caratterizzarla: “Talora, riferendoCi alla contingenza del tempo e degli eventi, vi esortammo a prendere parte attiva al risanamento delle piaghe prodotte dalla guerra, alla ricostruzione della pace, alla rinascita della vita nazionale, rifuggendo da 'emigrazioni' od astensioni; perché nella nuova società restava pur sempre largo posto per voi, se vi foste mostrati veramente élites ed optimates, vale a dire insigni per serenità di animo, prontezza di azione, generosa adesione” (16).
4. Adattandosi prudentemente al mondo moderno, la nobiltà non scompare nel livellamento generale Conformemente a queste osservazioni, un adeguato adattamento al mondo moderno, molto più ugualitario di quanto lo era l'Europa prima della II Guerra Mondiale, non significa per la nobiltà rinnegare se stessa né le sue tradizioni e sparire nel livellamento generale; ma, al contrario, significa permanere coraggiosamente come continuatrice di un passato ispirato a princìpi perenni, fra i quali il Pontefice mette in rilievo il più elevato, la fedeltà all' “ideale cristiano”: “Ricorderete altresì i Nostri incitamenti a bandire l'abbattimento e la pusillanimità di fronte all'evoluzione dei tempi, e le esortazioni ad adattarvi coraggiosamente alle nuove circostanze, col fissare lo sguardo all'ideale cristiano, vero e indelebile titolo di genuina nobiltà” (17). Questo è il “coraggioso adattamento” che tocca alla nobiltà attuare “di fronte all'evoluzione dei tempi”. Di conseguenza, la nobiltà non deve rinunciare alla gloria avita ereditata, ma conservarla per le proprie stirpi e, ancor più, per attuarla a beneficio del bene comune con il “valido contributo” che essa “è ancora in grado di prestarle”: “Ma perché, diletti figli e figlie, vi dicemmo, ed ora vi ripetiamo questi avvertimenti e raccomandazioni, se non per premunire voi stessi da amari disinganni, per serbare ai vostri casati l'eredità delle avite glorie, per assicurare alla società, alla quale appartenete, il valido contributo che voi siete ancora in grado di prestarle?” (18).
5. Per corrispondere alle attese che in essa sono riposte, la nobiltà deve brillare per i suoi doni specifici Dopo aver messo in rilievo ancora una volta - e a che giusto titolo! - l'importanza della fedeltà della nobiltà alla morale cattolica, Pio XII delinea un affascinante quadro delle caratteristiche con le quali la nobiltà deve contribuire per corrispondere alle attese riposte in essa. È specialmente importante in questo studio notare che queste qualità devono brillare nella nobiltà come “frutto di lunghe tradizioni famigliari”, evidentemente ereditarie, che costituiscono, con questa sfumatura, qualcosa di “proprio”, di specifico della classe nobiliare: “Tuttavia - Ci domanderete forse - che cosa di concreto dovremo fare per conseguire un così alto scopo? “Innanzitutto dovere insistere in una condotta religiosa e morale irreprensibile, specialmente nella famiglia, e praticare una sana austerità di vita. Fate che le altre classi si accorgano del patrimonio di virtù e di doti, a voi proprie, frutto di lunghe tradizioni famigliari. Tali sono la imperturbabile fortezza di animo, la fedeltà e la dedizione alle causa più degne, la pietà tenera e munifica verso i deboli e i poveri, il tratto prudente e delicato nei difficili e gravi affari, quel preciso personale, quasi ereditario nelle nobili famiglie, per cui si riesce a persuadere senza opprimere, a trascinare senza sforzare, a conquistare senza umiliare gli animi altrui, anche degli avversari e degli emuli. L'impiego di queste doti e l'esercizio delle virtù religiose e civiche sono la risposta più convincente ai pregiudizi ed ai sospetti, poiché manifestano l'intima vitalità dello spirito, da cui scaturiscono ogni vigore esterno e la fecondità delle opere” (19). Il Pontefice mostra qui, ai suoi illustri uditori, un modo adeguato di replicare alle invettive dell'ugualitarismo volgare dei nostri tempi, contrario alla sopravvivenza della classe nobiliare.
6. Perfino quelli che ostentano disprezzo per le antiche forme di vita non sono del tutto insensibili al lustro nobiliare Pio XII rileva il “vigore e fecondità di opere” come “caratteri della genuina Nobiltà”, e incita quest'ultima a cooperare al bene comune avvalendosi di tali caratteristiche: “Vigore e fecondità di opere! Ecco due caretteri della genuina nobiltà, dei quali i segni araldici, impressi nel bronzo e nel marmo, sono perenne testimonianza, perché rappresentano quasi la visibile trama della storia politica e culturale di non poche gloriose città europee. È vero che la moderna società non suole attendere con preferenza dal vostro ceto il 'la' per dare principio alle opere ed affrontare gli eventi; tuttavia essa non aiuta la cooperazione degli ingegni eletti che sono tra voi, poiché una saggia porzione conserva un giusto rispetto alle tradizioni e pregia l'alto decoro, ove sia fondato; mentre, anche l'altra parte della società, che ostenta noncuranza e forse disprezzo per le vetuste forme di vita, non va del tutto immune dalla seduzione del lustro; tanto è vero che si sforza di creare nuove fogge di aristocrazie, talune degne di stima, altre appoggiate su vanità e frivolezze, paghe soltanto di appropriarsi gli elementi scadenti delle antiche istituzioni” (20). In questo passo, Pio XII sembra confutare una possibile obiezione formulata da aristocratici scoraggiati alla vista dell'ondata di ugualitarismo che già allora si estendeva nel mondo moderno. Questo mondo, argomenterebbero tali aristocratici, disprezza la nobiltà e ne rigetta la collaborazione. A questo proposito, il Pontefice stima che nella società moderna possono distinguersi due tendenze davanti alla nobiltà: l'una “conserva un giusto rispetto alle tradizioni e pregia l'alto decoro, ove sia fondato”, per cui “non aiuta la cooperazione degli ingegni eletti che sono tra voi”. L'altra tendenza esistente nella società, che ostenta “noncuranza e forse disprezzo per le vetuste forme di vita, non va del tutto immune dalla seduzione del lustro”. E Pio XII riferisce significativi indizi di questa disposizione d'animo.
7. Le virtù specifiche dei nobili si comunicano a qualsiasi mestiere che esercitano Prosegue il Pontefice: “È però chiaro che il vigore e la fecondità delle opere non può manifestarsi sempre con forme ormai tramontate. Ciò non significa che sia stato ristretto il campo alla vostra attività; è stato, al contrario, ampliato nella totalità delle professioni e degli uffici. Tutto il terreno professionale è aperto anche a voi: in ogni suo settore potete essere utili per rendervi insigni: negli uffici della pubblica amministrazione e nel governo, nelle attività scientifiche, culturali, artistiche, industriali, commerciali” (21). Il Sommo Pontefice allude, in questo passo, al fatto che, nel regime politico e socio-economico in vigore prima della Rivoluzione francese, certe professioni non erano generalmente esercitate dalla nobiltà in quanto considerate ad essa inferiori. Il loro esercizio comportava perfino, a volte, la perdita della condizione nobiliare. Possiamo ad esempio menzionare il commercio, riservato in molti luoghi, di solito, alla borghesia ed alla plebe. Queste restrizioni andarono cadendo nel corso dei secoli XIX e XX, fino a sparire interamente nei nostri giorni. Pio XII sembra tener presente, in questo passo, che gli sconvolgimento delle due Guerre Mondiali, che hanno segnato questo secolo, avevano rovinato economicamente un considerevole numero di stirpi nobiliari, i cui membri furono così ridotti all'esercizio di professioni subalterne, inadatte non soltanto alla nobiltà ma anche all'alta e media borghesia. Si può perfino parlare di proletarizzazione di certi nobili. Di fronte a una realtà così dura, Pio XII esorta queste stirpi a non dissolversi nella banalità dell'anonimato ma al contrario, praticando le proprie virtù tradizionali, ad agire con “vigore e fecondità” e a comunicare così una caratteristica specificamente nobile a qualsiasi lavoro che esercitino per propria scelta, o che siano obbligati ad accettare in conseguenza della dura necessità. In questo modo la nobiltà tornerà ad essere compresa e rispettata anche nelle condizioni più penose!
8. Un esempio sublime: il matrimonio di due membri della stirpe regale nel cui focolare nacque e visse l'Uomo-Dio Questo elevato insegnamento, che prende come esempio le funzioni di amministrazione pubblica del governo, come pure altre esercitate abitualmente dalla borghesia, fa pensare anche al matrimonio di due membri della stirpe regale di Davide, nel cui focolare, contemporaneamente principesco e operaio, nacque e visse durante trent'anni l'Uomo-Dio! (22) Troviamo questa riflessione nell'allocuzione di Pio XII alla Guardia Nobile nel 1939: “Nobili voi eravate già, anche prima di servire Iddio e il Suo Vicario sotto lo stendardo bianco e oro. La Chiesa, ai cui occhi l'ordine della società umana riposa fondamentalmente sulla famiglia, per umile che sia, non disistima quel tesoro familiare, che è la nobiltà ereditaria. Si può dire anzi che Gesù Cristo stesso non l'ha disprezzata: l'uomo, cui affidò l'incarico di proteggere la Sua adorabile Umanità e la Sua Vergine Madre, era di stirpe reale: 'Joseph, de domo David' (Luc., I, 27). Ed è perciò che il Nostro Antecessore Leone XII, nel Chirografo di riforma del Corpo del 17 Febbraio 1824, attestava che la Guardia Nobile è 'destinata a prestare servizio più prossimo ed immediato alla Nostra stessa Persona e costituente un Corpo, tanto per il fine della sua istituzione, che per la qualità degli individui che la compongono, è il primo e più rispettabile di ogni arma del Nostro Principato’”. (23)
9. La più alta funzione sociale della Nobiltà: conservare, difendere e diffondere gli insegnamenti cristiani contenuti nelle nobili tradizioni che la distinguono Nella sua allocuzione del 1958, il Pontefice si riferisce al dovere di resistenza morale alla corruzione moderna, come còmpito generico delle “classi elevate, tra cui è la vostra”, ossia quella del Patriziato e della Nobiltà romana: “Vorremmo infine che il vostro influsso nella società le risparmiasse un grave pericolo proprio dei tempi moderni. È noto che la società progredisce e si eleva quando le virtù di una classe si diffondono nelle altre; decade, al contrario, se si trasferiscono dall'una alle altre i vizi e gli abusi. Per la debolezza dell'umana natura si verifica più sovente la diffusione di questi, ed oggi con tanto maggiore celerità, quanto più facili sono i mezzi di comunicazione, l'informazione ed i contatti personali, non solo fra nazione e nazione, ma tra continenti. Accade nel campo morale ciò che si verifica in quello della sanità fisica: né le distanze né le frontiere impediscono ormai più che un germe epidemico raggiunga in breve tempo lontane regioni. Ora le classi elevate, tra cui è la vostra, a causa delle molteplici relazioni e dei frequenti soggiorni in Paesi dallo stato morale differente, e forse anche inferiore, potrebbero divenire facili veicoli di traviamenti nei costumi” (24). Il Santo Padre delinea più specificamente le caratteristiche di questo dovere che spetta alla Nobiltà: è un dovere di resistenza che va compiuto innanzitutto nel campo dottrinale, ma che si estende anche al terreno dei costumi. “Per quanto a voi spetta, vegliate e adoperatevi, affinché le perniciose teorie ed i perversi esempi non riscuotano giammai la vostra approvazione e simpatia, tantomeno trovino in voi favorevoli veicoli e focolai d'infezione”. Questo dovere è parte integrante del “profondo rispetto alle tradizioni che coltivate e con cui intendete distinguervi nella società”. Queste tradizioni sono “preziosi tesori” che spetta alla nobiltà “serbare in mezzo al popolo”. “Può essere questa la più alta funzione sociale dell'odierna nobiltà; certamente è il maggior servizio, che voi potete rendere alla Chiesa ed alla Patria” (25), dice il Sommo Pontefice. Conservare, difendere e diffondere gli insegnamenti cristiani contenuti nelle nobili tradizioni che la contraddistinguono: quale uso più elevato potrebbe fare la nobiltà dello splendore dei secoli passati, che ancor oggi la illumina e la pone il rilievo? (26)
Giovanni XXIII con la Guardia Nobile dopo la sua allocuzione del 7 gennaio 1959
10. Dovere della nobiltà: non dissolversi nell'anonimato ma al contrario resistere all'ondata dell'egualitarismo moderno Pio XII insiste paternamente perché la nobiltà non si lasci dissolvere nell'anonimato verso il quale vogliono trascinarla l'indifferenza e l'ostilità di molti, sotto l'ondata del rude ugualitarismo moderno. Inoltre le addita un'altra funzione, anch'essa di grande portata: in virtù della presenza operante delle tradizioni che coltiva e irradia, la nobiltà deve contribuire a preservare i valori tipici dei differenti popoli da un cosmopolitismo omologatore. “Esercitare dunque le virtù ed impiegare a comune vantaggio le doti proprie del vostro ceto, eccellere nelle professioni ed attività prontamente abbracciate, preservare la nazione dalle esterne contaminazioni: ecco le raccomandazioni che Ci sembra dovervi porgere in quest'inizio di nuovo anno” (27). Nel chiudere con paterne benedizioni questa così espressiva allocuzione, il Pontefice fa ancora uno speciale accenno in favore della continuità della nobiltà, ricordando che spetta ai fanciulli di nobile stirpe, lì presenti, il grave e onorifico dovere di continuare, in futuro, le più degne tradizioni della nobiltà: “Affinché l'Onnipotente convalidi i vostri propositi e adempia i Nostri voti, esaudendo le suppliche che pertanto gli rivolgiamo, discenda su di voi tutti, sulle vostre famiglie, particolarmente sui vostri bambini, continuatori nel futuro delle vostre più degne tradizioni, la Nostra Apostolica Benedizione” (28).
Giovanni XXIII entra in San Pietro, in sedia gestatoria, per le cerimonie della Domenica delle Palme. A sinistra della foto, si può vedere l’Assistente al Soglio Pontificio, principe Aspreno Colonna, seguito dai cardinali Ottaviani e Spellman. A destra, dietro l’alabardiere della Guardia Svizzera, vediamo il Comandante della Guardia Palatina, conte Francesco Cantuti di Castelvetri e l’Esente Aiutante Maggiore della Guardia Nobile, conte Nasalli Rocca di Cornellano. A destra del Somo Pontefice il marchese Giulio Sacchetti, Foriere Maggiore di Sua Santità. 11. Nobiltà: categoria particolarmente insigne nella società umana - Essa dovrà renderne particolare conto a Dio Un'applicazione di questi ricchi e densi insegnamenti alla condizione contemporanea della nobiltà possiamo trovarla nell'allocuzione di Giovanni XXIII al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 9 gennaio 1960 (l'edizione della Tipografia Poliglotta Vaticana ne riporta solo un riassunto): “Il Santo Padre si compiace di rilevare che la distinta udienza richiama quello che è il consorzio umano nella sua interezza: una molteplice varietà di elementi, ciascuno con la propria personalità ed efficienza come fiori sotto la luce del sole, e meritevole di rispetto ed onore quali che sia la entità e proporzione. “Il fatto, poi, di appartenere ad un ordine della società umana, particolarmente distinto, mentre richiede una adeguata considerazione, è richiamo per coloro che ne fanno parte a maggiormente dare, come si conviene a chi ha più ricevuto, e che di tutto dovrà rendere conto, un giorno, a Dio. “In tal modo operando, si coopera alla mirabile armonia del regno del Signore, nell'intimo convincimento che anche quel che di notevole c'è stato nella storia di ogni famiglia deve rafforzare l'impegno - e proprio in conformità alla particolare condizione sociale –per il sublime concetto della fraternità cristiana e per l'esercizio di singolari virtù: la pazienza dolce e mite, la purezza dei costumi, l'umiltà e, soprattutto, la carità. Soltanto così conseguirà per i singoli un grande ed inestinguibile onore! “Da ciò deriva che, domani, i giovani virgulti di oggi benediranno i padri e dimostreranno che il pensiero cristiano è stato ispirazione ideale, norma di condotta, generosità, spirituale bellezza. “Queste stesse disposizioni serviranno a sostenere anche le immancabili sventure: giacché la croce sta presso ogni dimora, dalla più umile casa di campagna, al palazzo maestoso. Tuttavia è ben chiaro e naturale che si debba passare per questa scuola di dolore, nella quale Nostro Signore Gesù Cristo ci è insuperabile Maestro. “Ad avvalorare le migliori disposizioni dei presenti il Sommo Pontefice annunzia la sua Benedizione per ognuno e per le famiglie, invocando le divine assistenze segnatamente là ove c'è una sofferenza e maggiore è la necessità. Aggiunge l'augurio paterno di comportarsi in modo da non vivere - come suol dirsi - alla giornata, ma di sentire ed esprimere, con la vita di ogni giorno, pensieri ed opere secondo il Vangelo, dal quale sono state segnate le vie luminose della civiltà cristiana. Chi agisce in tal modo sa già adesso che anche il suo nome sarà ripetuto, nel futuro, con rispetto ed ammirazione” (29). Il ruolo specifico della nobiltà contemporanea è ricordato anche da Giovanni XXIII nell'allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 10 gennaio 1963: “Questo proposito espresso a nome dei presenti membri del patriziato e della nobiltà romana dal loro autorevole interprete è quanto mai consolante e la sua attuazione porterà pace e letizia e benedizione. “Chi ha più ricevuto, chi più emerge si trova maggiormente in condizioni di dare buoni esempi, ognuno deve dare il suo contributo, i poveri, gli umili, i sofferenti, e quelli che hanno ricevuto numerose grazie e godono di una situazione che porta con sé particolari e gravi responsabilità” (30).
Scene dell’udienza concessa da Giovanni XXIII al Patriziato ed alla Nobiltà Romana il 20 gennaio 1963. “Il fatto, poi, di appartenere ad un ordine della società umana, particolarmente distinto, mentre richiede una adeguata considerazione, è richiamo per coloro che ne fanno parte a maggiormente dare, come si conviene a chi ha più ricevuto, e che di tutto dovrà rendere conto, un giorno, a Dio” (Giovanni XXIII, allocuzione del 9 gennaio 1960). Note: 1) Acta Sanctae Sedis, Romae 1906, vol. XXXIX, pp. 8-9. 2) Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II, Constitutiones, Decreta, Declarationes, Typis Polyglottis Vaticanis, 1974, pp. 154, 162, 285. 3) Epist. 138 ad Marcellinum, cap. II, n 15, in Opera Omnia, tomo II, Migne, col. 532. 4) "Ci fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava gli Stati. In quest'epoca, l'influenza della sapienza cristiana e la sua virtù divina penetravano nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutte le categorie e in tutte le relazioni della società civile. Allora la Religione istituita da Gesù Cristo, solidamente stabilita nel grado di dignità che le è dovuto, fioriva dappertutto, grazie al favore dei prìncipi e dalla legittima protezione dei magistrati. Allora il sacerdozio e l'impero erano legati fra loro da una felice concordia e dall'amichevole scambio di buoni uffici. Così organizzata, la società civile diede frutti superiori a qualsiasi aspettativa, la cui memoria permane e permarrà, consegnata a innumerevoli documenti che nessun artificio dei nemici potrà mai corrompere o oscurare" (Acta Sanctae Sedis, Typis Polyglottae Officinae, Romae 1885, vol. XVIII, p. 169). 5) Un altro aspetto di questa legittima partecipazione del clero nella vita pubblica nazionale fu, al tempo del feudalesimo, l'esistenza di diocesi e abbazie i cui titolari erano, ipso facto e allo stesso tempo, titolari delle rispettive circoscrizioni feudali. Così, per esempio, i Vescovi-Principi di Colonia o di Ginevra, per lo stesso fatto di essere vescovi, indipendentemente dalla loro origine nobile o plebea, erano ipso facto Principi di Colonia o di Ginevra. Uno degli ultimi fra questi fu il soavissimo san Francesco di Sales, insigne Dottore della Chiesa. Similmente ai vescovi-principi c'erano dignitari ecclesiastici di grado meno eminente di nobiltà, come in Portogallo gli arcivescovi di Braga, che erano allo stesso tempo signori di quella città, e i vescovi di Coimbra che, ipso facto, erano conti di Arganil, per cui usavano correntemente il titolo di vescovi-conti di Coimbra. 6) PNR 1952, p. 457; Cfr. Capitolo II, 1. 7) PNR 1952, p. 457. 8) PNR 1952, p. 457. 9) In francese nel testo pontificio. 10) PNR 1952, pp. 457-458. 11) PNR 1952, p. 457. 12) Cfr. Capitolo VI, 3 a. 13) PNR 1952, p. 459. 14) Cfr. Capitolo I, 6. 15) PNR 1958, p. 708. 16) PNR 1958, p. 708. 17) PNR 1958, p. 708. 18) PNR 1958, pp. 708-709. 19) PNR 1958, p. 709. 20) PNR 1958, p. 709. 21) PNR 1958, pp. 709-710. 22) Cfr. Capitolo V, 6; PNR 1941, p. 363. 23) GNP 1939, p. 450. 24) PNR 1958, p. 710. 25) PNR 1958, p. 710. 26) Sulla nobiltà come fattore che predispone e stimola alla pratica delle virtù cristiane, si veda specialmente l'ammirevole omelia di San Carlo Borromeo riprodotta in Documenti IV, 8. 27) PNR 1958, p. 710-711. 28) PNR 1958, p. 711. 29) PNR 1960, pp. 565-566. 30) PNR 1963, p. 348. |