Plinio Corrêa de Oliveira

 

Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana

 

 

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Marzorati Editore, 1993

ISBN 88-280-0129-1

Per richieste dell'opera in formato cartaceo: www.atfp.it


Documenti VII

Roma antica:

uno Stato nato dalle società patriarcali 

 

L’opera di Fustel de Coulanges (1), La città antica, accolta all'inizio con entusiasmo, è stata oggetto di riserve nel corso del tempo. Non mancò chi, per esempio, le attribuì un carattere troppo “sistematico”. Ciò nonostante, per la sua erudizione esemplare, per la lucidità del suo pensiero e la chiarezza della sua esposizione, essa conserva ai nostri giorni il carattere di un vero capolavoro nel suo genere. 

 

1. La parola pater si distingue da genitor e appare come sinonimo di rex 

“In virtù della religione domestica, la famiglia era un piccolo corpo organizzato, una piccola società che aveva un capo e un governo. Niente, nella nostra società moderna, può darci un'idea di questa potestà paterna. Nell'antichità, il padre non è solo l'uomo forte che protegge e che ha anche il potere di farsi obbedire: è il sacerdote, l'erede del focolare, il continuatore degli antenati, la radice dei discendenti, il depositario dei riti misteriosi del culto e delle formule segrete della preghiera: tutta la religione risiede in lui.

“Il nome stesso che gli si dà, pater, da sé solo, ci dice parecchie cose interessanti. La parola è la stessa in greco, in latino, in sanscrito: da questo, si può già concludere che questa parola risale a un tempo in cui gli antenati degli Elleni, degl'Italici e degl'Indù vivevano ancora insieme nell'Asia centrale. Ma che senso aveva e che idea presentava allo spirito umano? Si riesce a saperlo, perché la parola ha conservato il suo primo significato nelle formule della lingua religiosa e in quelle della lingua giuridica. (...) Nella lingua giuridica, il titolo di pater o paterfamilias poteva esser dato a un uomo che non aveva figli, che non era ammogliato, che non era neppure in età da contrarre matrimonio. L'idea di paternità non era, dunque, annessa a questa parola. L'antica lingua ne aveva un'altra, che designava proprio il padre, e che, antica quanto pater, è comune anch'essa, come pater, al greco, al latino, al sanscrito (gânitar, gennetér, genitor): la parola pater aveva un altro senso. Nella lingua religiosa, si applicava a tutti gli dèi; nella lingua del diritto, a qualunque uomo non dipendesse da un altro e avesse autorità sopra una famiglia e sopra una proprietà: i poeti ci mostrano che si usava per tutti quelli che si voleva onorare; lo schiavo e il cliente davano questo titolo al padrone. Era un sinonimo di rex, hãnas, basileús: aveva in sé non l'idea di paternità, ma quella di potenza, d'autorità, di dignità maestosa.

“Che questa parola si sia applicata al padre di famiglia fino a poter diventare, a poco a poco, il suo appellativo più comune, è certo un fatto molto significativo, e che parrà di grande importanza a chiunque voglia conoscere le istituzioni antiche. La storia di questa parola basta a darci un'idea della potestà che il padre tenne a lungo nella famiglia, e del sentimento di venerazione che si ebbe per lui come per un pontefice e per un sovrano”. (2) 

 

2. La gens dei romani e il génos dei greci 

“Nei problemi difficili che la storia spesso ci presenta, è bene chiedere ai termini linguistici tutte le informazioni che possono darci: un'istituzione, talvolta, è spiegata dalla parola che la designa. Ora, la parola gens è esattamente la stessa cosa che la parola genus, fino al punto che si poteva scambiarle l'una con l'altra, e dire indifferentemente: gens Fabia e genus Fabium; tutte e due corrispondono al verbo gignere e al sostantivo genitori assolutamente come génos corrisponde a gennãs e a goneús: tutte queste parole hanno in sé l'idea di filiazione. (...)

“Si paragonino a tutte queste parole quelle che abbiamo l'abitudine di tradurre con famiglia, il latino familia, il greco oíkos. Né l'una né l'altra parola contengono in sé il senso di generazione o di parentela; il significato vero di familia è quello di 'proprietà': essa indica il campo, la casa, il danaro, gli schiavi; e per questo le Dodici Tavole dicono, parlando dell'erede, familiam nancitor, 'ch'egli prenda la successione'. Quanto a oíkos, è chiaro che tale parola non presenta alla mente altra idea che quella di proprietà o di domicilio. Queste sono le parole che traduciamo comunemente con 'famiglia'. Ora, è ammissibile mai che parole, il cui senso intrinsico è di domicilio o di proprietà, abbian potuto essere adoperate spesso per indicare la famiglia, e che altre parole, il cui senso intrinseco è di filiazione, nascita, paternità, non abbiano mai indicato se non un'associazione artificiale? Questo non sarebbe certo conforme alla proprietà e alla precisione delle lingue antiche. Senza dubbio, i Greci e i Romani ammettevano alle parole gens e génos l'idea d'un'origine comune.

“Da tutti gl'indizi la gens ci appare unita da un legame di nascita. (...)

“Risulta da tutto questo che la gens non era un'associazione di famiglie, ma era la famiglia stessa: poteva indifferentemente comprendere un ramo solo, o avere rami numerosi; ma era sempre una sola famiglia.

“D'altra parte, è facile rendersi conto della formazione della gens antica e della sua natura, se ci riportiamo alle vecchie credenze e alle vecchie istituzioni che abbiamo osservate più sopra; e si riconoscerà pure che la gens è derivata molto naturalmente dalla religione domestica e dal diritto privato delle età antiche. (...) Osservando che cos'era l'autorità nella famiglia antica, abbiamo visto che i figli non si separavano dal padre; studiando le regole della trasmissione del patrimonio, abbiamo visto che, per il principio della comunità del possesso, i fratelli minori non si separavano mai dal maggiore. Il focolare, la tomba, il patrimonio, tutto, in origine, era indivisibile: per conseguenza era indivisibile anche la famiglia; il tempo non la smembrava. Questa famiglia indivisibile, che si sviluppava attraverso le età, perpetuando di secolo in secolo il suo culto e il suo nome, era proprio la gens antica.

“La gens era la famiglia, ma la famiglia che aveva conservato l'unità voluta dalla sua religione, e che aveva raggiunto tutto lo sviluppo permessole dall'antico diritto privato.

“Ammessa questa verità, tutto ciò che gli scrittori antichi ci dicono della gens, diventa chiaro. La stretta solidarietà che s'è notata or ora tra i suoi membri, non ha più nulla di sorprendente: sono parenti per la nascita”. (3) 

 

3. La concezione della famiglia nel mondo antico 

“Si può intravedere, dunque, un lungo periodo durante il quale gli uomini non conobbero altra forma di società che la famiglia. (...)

“Ogni famiglia ha la propria religione, i propri dèi, il proprio sacerdozio. (...) Ogni famiglia ha pure la sua proprietà, cioè la sua parte di terreno, che è annessa inseparabilmente ad essa dalla religione. (...) Finalmente, ogni famiglia ha il suo capo, come ogni nazione avrà il suo re; ha le sue leggi, che certo non sono scritte, ma che la fede religiosa imprime nel cuore d'ogni uomo; ha la sua giustizia interna, sopra la quale non ve n'è nessun'altra a cui si possa far appello: tutto ciò di cui l'uomo ha stretto bisogno per la sua vita materiale e morale, la famiglia l'ha in sé. Non le occorre nulla che venga di fuori: essa è uno Stato organizzato, una società che basta a sé stessa.

“Ma questa famiglia delle età antiche non si riduceva alle proporzioni della famiglia moderna. Nelle società estese, la famiglia si smembra e s'impicciolisce; ma, nell'assenza d'ogni altra società, s'estende, si sviluppa, si ramifica, senza dividersi: molti rami minori restano aggruppati attorno al ramo primogenito, vicino al focolare unico e alla tomba comune”. (4) 

 

4. Famiglia, curia o fratria e tribù 

“Lo studio delle antiche regole del diritto privato ci ha fatto intravedere, di là dai tempi che si chiamano storici, una serie di secoli, durante i quali la famiglia fu la sola forma di società. Questa famiglia poteva allora contenere nel suo ampio seno molte migliaia di persone. Ma, dentro questi limiti, l'associazione umana era ancora troppo ristretta: troppo ristretta per i bisogni materiali, perché era difficile che questa famiglia bastasse a se stessa in tutte le circostanze della vita. (...)

“L'idea religiosa e la società umana dovevano ingrandirsi di pari passo.

“La religione domestica proibiva a due famiglie di mescolarsi e di fondersi insieme. Ma poteva darsi il caso che parecchie famiglie, senza sacrificar niente della loro religione particolare, si riunissero almeno per la celebrazione d'un altro culto che fosse loro comune. E così avvenne. Un certo numero di famiglie formarono un gruppo, che la lingua greca chiamò una fratria; la lingua latina, una curia. Esisteva, tra le famiglie d'uno stesso gruppo, un legame di nascita? È impossibile affermarlo. Ma è certo che questa nuova associazione non si formò senza un certo ampliarsi dell'idea religiosa. Nel momento stesso in cui s'univano, queste famiglie concepirono una divinità superiore alle loro divinità domestiche, che era comune a tutte e che vegliava sul gruppo intero; esse le elevarono un altare, le accesero il fuoco sacro e le istituirono un culto.

“Non vi era curia né fratria, che non avesse il suo altare e il suo dio protettore: l'atto religioso era, in esse, della stessa natura che nella famiglia.

“Ogni fratria o curia aveva un capo, curione o fratriarca, la cui funzione principale era di presiedere ai sacrifici; forse le sue attribuzioni furono in origine più estese. La fratria aveva le sue assemblee, le sue deliberazioni, e poteva emettere decreti. In essa, come nella famiglia, esisteva un dio, un culto, un sacerdozio, una giustizia, un governo: era una piccola società modellata esattamente sulla famiglia.

“L'associazione continuò ad ingrandirsi naturalmente e nello stesso modo: parecchie curie o fratrie si raggrupparono e formarono una tribù.

“Questa nuova cerchia ebbe sempre la sua religione: in ogni tribù, vi fu un altare e una divinità protettrice. (...)

“La tribù, come la fratria, teneva assemblee ed emanava decreti, a cui tutti i suoi membri dovevano sottomettersi; aveva un tribunale e un diritto di giustizia su di essi; aveva un capo, tribunus, phylobasiléus”. (5) 

 

5. Si forma la città 

“La tribù, come la famiglia e la fratria, si era costituita per essere un corpo indipendente, poiché aveva un culto speciale, da cui l'estraneo era escluso. Una volta formatasi, nessuna nuova famiglia poteva più esservi ammessa. Due tribù non potevano fondersi in una sola: la loro religione vi si opponeva. Ma, come più fratrie s'erano unite in una tribù, così più tribù poterono associarsi tra loro, a condizione che fosse rispettato il culto di ciascuna. Quando questo avvenne, si ebbe la città.

“Poco importa ricercare la causa che determinò diverse tribù vicine a unirsi: talvolta, l'unione fu volontaria; talvolta, fu imposta dalla forza superiore d'una tribù o dalla volontà potente d'un uomo. Quello che è sicuro, è che il legame della nuova associazione fu ancora un culto. Le tribù che si raggrupparono per formare una città non mancarono mai d'accendere un fuoco sacro e di crearsi una religione comune.

“Così la società umana, in questa razza, non s'ingrandì come una cerchia che si allargasse a poco a poco, crescendo a mano a mano: s'ingrandì per via di piccoli gruppi, che, formatisi anticipatamente da molto tempo, si aggregarono gli uni agli altri. Parecchie famiglie formavano la fratria; più fratrie, la tribù; più tribù, la città. La famiglia, la fratria, la tribù, la città sono, d'altra parte, società esattamente somiglianti tra loro, e non nate l'una dall'altra per una serie di aggruppamenti successivi.

“Bisogna anche notare che, a mano a mano che questi gruppi differenti s'unirono così tra di loro, nessuno d'essi tuttavia perdeva la propria individualità né la propria indipendenza. Benché parecchie famiglie si fossero unite in una fratria, ognuna d'esse rimaneva costituita come nel momento del suo isolamento; niente era cambiato in essa, né il suo culto, né il suo sacerdozio: né il suo diritto di proprietà, né la sua giustizia interna. Le curie si associarono in seguito; ma ognuna conservava il proprio culto, le proprie riunioni, le proprie feste, il proprio capo. Dalla tribù si passò alla città; ma le tribù non si dissolsero per questo, e ognuna d'esse continuò a formare un corpo a sé, quasi come se la città non esistesse affatto. (...)

“Così la città non è un'assemblea d'individui: è una confederazione di parecchi gruppi che erano già costituiti prima di essa e ch'essa lascia durare. Si vede negli oratori attici che ogni Ateniese fa parte contemporaneamente di quattro società distinte: è membro d'una famiglia, d'una fratria, d'una tribù e d'una città”. (6) 

 

6. Città ed urbe 

“Cittadinanza e città non erano sinonimi presso gli antichi: la cittadinanza era l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; la città era il luogo di riunione, il domicilio, e soprattutto il santuario dell'associazione. (...)

“Una volta che le famiglie, le fratrie e le tribù s'erano messe d'accordo d'unirsi a d'avere uno stesso culto, subito si fondava la città perché fosse il santuario del culto comune: così, la fondazione d'una città era sempre un atto religioso.

“Prenderemo per primo esempio Roma stessa (…).

“Venuto il giorno della fondazione, egli [Romolo] offre prima di tutto un sacrificio: i suoi compagni sono disposti intorno a lui; accendono un fuoco con i cespugli, e ognuno salta attraverso la fiamma leggera. La spiegazione del rito è questa: per l'atto che si sta per compiere bisogna che il popolo sia puro: ora, gli antichi credevano di purificarsi di qualunque macchia fisica o morale, saltando attraverso la fiamma sacra.

“Quando questa cerimonia preliminare ha preparato il popolo al grande atto della fondazione, Romolo scava una piccola fossa circolare, vi getta una zolla che ha portato con sé dalla città di Alba; poi, ognuno dei suoi compagni, avvicinandosi alla sua volta, getta, come lui, un po' di terra che ha portata con sé dal paese di dove viene. Questo rito è degno di nota, e ci rivela, presso quegli uomini, un pensiero che importa mettere in rilievo. Prima di stabilirsi sul Palatino, essi abitavano Alba o qualche altra delle città vicine: là era il loro focolare; là i loro padri eran vissuti ed erano stati seppelliti. Ora, la religione proibiva di lasciare la terra dov'era stato fissato il focolare e dove riposavano gli antenati divini; bisognò, dunque, per liberarsi da ogni empietà, che ognuno di quegli uomini facesse una finzione, e portasse con sé, sotto il simbolo d'una zolla di terra, il suolo sacro in cui i suoi antenati erano seppelliti e a cui i suoi Mani erano legati. L'uomo non poteva mutar posto che portando con sé il proprio suolo e i propri avi; bisognava che si compisse questo rito, perché egli potesse dire, mostrando il nuovo posto che aveva scelto: - Questa è ancora la terra dei miei padri, terra patrum, patria; qui è la mia patria, perché qui sono i Mani della mia famiglia”. (7) 

 

7. La difficoltà nel formare lo Stato 

“È facile immaginare due cose: prima di tutto, che questa religione particolare a ciascuna città dove costituire la città in una maniera saldissima e quasi immutabile: è meraviglioso, infatti, come quest'organizzazione sociale, nonostante i suoi difetti e tutte le occasioni per andare in rovina, durò a lungo; in secondo luogo, che questa religione dovette aver per effetto, per molti secoli, di rendere impossibile lo stabilirsi d'una forma sociale diversa dalla città.

“Ogni città, per l'esigenza della sua stessa religione, doveva essere assolutamente indipendente. Bisognava che ciascuna avesse il suo codice particolare, poiché ciascuna aveva la sua religione, e proprio dalla religione derivava la legge; ognuna doveva avere la sua giustizia sovrana, e non poteva esserci nessuna giustizia superiore a quella della città. Ciascuna aveva le proprie feste religiose e il proprio calendario: i mesi e l'anno non potevano essere gli stessi in due città, poiché la serie degli atti religiosi era differente; ciascuna aveva la propria moneta particolare, che, in origine, era ordinariamente segnata del suo emblema religioso; ciascuna aveva i suoi pesi e le sue misure. Non si ammetteva che ci dovesse esser niente di comune tra due città. (...)

“La Grecia non riuscì mai a formare un solo Stato; né le città latine, né le città etrusche, né le tribù sannite poterono mai formare un corpo compatto. Si è attribuita la divisione incurabile dei Greci alla natura del loro territorio, e si è detto che le montagne che vi s'incrociano, stabilivano tra gli uomini divisioni naturali; ma non c'erano montagne tra Tebe e Platea, tra Argo e Sparta, tra Sibari e Crotone. Neppure ce n'erano tra le città del Lazio, né tra le dodici città dell'Etruria. La natura fisica ha senza dubbio qualche influenza sulla storia dei popoli, ma le credenze dell'uomo ne hanno una molto più potente. Tra due città vicine c'era qualche cosa di più insormontabile d'una montagna: c'era la serie dei confini sacri, c'era la differenza dei culti, c'era la barriera che ogni città innalzava tra lo straniero e i suoi dèi.

“Per questo motivo gli antichi non poterono stabilire e neppure concepire nessun'altra organizzazione sociale che la città. Né i Greci né gli Italici né i Romani stessi per molto tempo ebbero mai il pensiero che parecchie città potessero unirsi e vivere a condizioni uguali sotto uno stesso governo. Tra due città poteva esserci alleanza, associazione momentanea in vista d'un profitto da ritrarre o d'un pericolo da respingere, ma non c'era mai unione completa, perché la religione faceva d'ogni città un corpo che non poteva aggregarsi a un altro: l'isolamento era la legge della città.

“Con le credenze e gli usi religiosi che abbiamo veduti, come avrebbero potuto parecchie città fondersi in uno stesso Stato? L'associazione umana non era compresa, e non pareva regolare se non in quanto era fondata sulla religione: il simbolo di quest'associazione doveva essere un pasto sacro fatto in comune. Alcune migliaia di cittadini potevano, a rigore, riunirsi attorno a uno stesso pritaneo, recitare la stessa preghiera e dividersi i piatti sacri. Ma provate un po', con questi usi, a fare uno Stato solo di tutta la Grecia! ( ...)

“Fondere due città in uno Stato solo, unire la popolazione vinta alla popolazione vittoriosa e associarli sotto uno stesso governo, tutto questo non si vede mai presso gli antichi, tranne un'eccezione sola. (...)

“Quest'indipendenza assoluta della città antica non poté cessare se non quando le credenze su cui essa era fondata, scomparvero completamente. Dopo che le idee si furono trasformate e parecchie rivoluzioni furono passate sulle società antiche, solo allora si poté arrivare a concepire e a stabilire uno Stato più grande, retto da altre regole. Ma fu necessario, per questo, che gli uomini scoprissero altri princìpi e un altro legame sociale che quelli delle età antiche”. (8)


Note:

1) Storico francese, (1830-1889), docente di storia medioevale alla Sorbona e direttore della Scuola Normale Superiore. Oltre a La città antica, scrisse altre opere fra le quali spiccano Storia delle istituzioni della Francia antica, in cui analizza la formazione del regime feudale in quel Paese.

2) La città antica, Sansoni, Firenze, 1972, Libro Secondo, pp. 98, 99.

3) Idem, pp. 119, 120, 121 e 122.

4) Idem, pp. 126-127.

5) op. cit., Libro Terzo, pp. 135, 136-137, 139 e 140.

6) Idem, pp. 148-149, 150.

7) Idem, pp. 156, 158-159.

8) Idem, pp. 242-244, 245 e 246.