Dall’udienza generale di Paolo VI, Mercoledì, 22 novembre 1972:
Nota: I titoli sono del sito del Vaticano [https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/audiences/1972/documents/hf_p-vi_aud_19721122.html] consultato il 14 gennaio 2024.
Non può sussistere una Chiesa senza la fede, l’autorità, il magistero e la croce
Un desiderio arde sempre nel cuore della Chiesa, come una lampada che non si spegne, un desiderio comune della Chiesa come Popolo di Dio, e come coscienza personale d’ogni membro di questo mistico corpo di Cristo; un desiderio, che investe tutta la psicologia dei seguaci del Signore Gesù, e che fa parte d’ogni proposito e di ogni programma di riforma e di rinnovamento, il desiderio di rivestirsi di un autentico stile cristiano.
Autentico stile cristiano
Stile è dir poco; perché la parola stile si riferisce all’aspetto esteriore d’una cosa; ma in questo nostro caso stile vuol dire il risultato d’uno spirito interiore, vuol dire l’autenticità visibile d’un ordine morale, vuol dire l’espressione d’una mentalità, d’una concezione della vita, d’una coerenza e d’una fedeltà, che si alimentano dalle radici della personalità profonda e vitale di chi si manifesta nel suo proprio stile.
Siamo ancora al vecchio proverbio: l’abito non fa il monaco. Vero. Ma l’abito per sé deve qualificare individualmente e socialmente colui che monaco si professa; può, sì, camuffarlo e rivestirlo d’ipocrisia (Cfr. Matth. 15, 7-8), e fargli recitare una parte fittizia che non lo definisce intimamente, come l’artista in teatro: ma l’intenzione stilistica dell’abito non solo tende a dire mediante l’aspetto esteriore chi uno è, ma a dargli altresì una coscienza interiore di chi egli deve essere.
Una vita conforme alla fede
Per ciò che ora a noi interessa, ripetiamo, la Chiesa e ogni singolo fedele deve avere uno stile di vita conforme alla sua fede. Tante volte lo abbiamo ripetuto, con le parole di S. Paolo: l’uomo giusto, cioè il cristiano vero, vive traendo dalla fede l’energia ed il criterio della sua autenticità (Cfr. Rom. 1, 17). Il che comporta, oltre che una «forma» nuova, interiore e originale, soprannaturale di vita, una certa effusione di questa interiorità, una certa visibilità esteriore. Tanto più che proprio il Concilio, ravvivando nel cuore della Chiesa e dei fedeli che la compongono i doni divini della vera religione calata dal cielo, mirava anche a infondere nella Chiesa stessa un grado maggiore di evidenza, chiamandola «sacramento visibile» della unione con Dio (Lumen Gentium, 1), dell’unità salvifica (Ibid. 9), anzi della salvezza stessa (Ibid. 48; Gaudium et Spes, 45; Ad gentes, 5). La Chiesa, mediante il Concilio, è auspicata più riconoscibile, più luminosa, più stilizzata secondo i canoni suoi propri, più vivente del costume delineato e reclamato dalla sua vocazione evangelica.
Sulla linea del rinnovamento conciliare
È riuscito questo sforzo di fare apparire la Chiesa più conforme allo stile, al costume che esige la sua vocazione? Si è trasformata o meglio riformata la Chiesa secondo le esigenze rinnovatrici del Concilio? Sì, sembra a noi di potere rispondere, per le tante cose buone, che proprio in questo intento epifanico d’autenticità e di credibilità sono state operate nella Chiesa, e che, già bene avviate, saranno operate. Lo dobbiamo dire a lode e incoraggiamento di quei suoi figli e di quelle sue istituzioni che, appunto per dare alla Chiesa linee meglio corrispondenti alla sua originaria istituzione, alla sua coerente tradizione, alla sua presente missione, hanno pregato, lavorato, sofferto con buono spirito, in questi dieci anni dall’inizio del Concilio.
Ma non possiamo tacere che altri fenomeni si sono nello stesso tempo verificati, che non sono sempre riducibili al piano prefisso di dare, ridare, conservare alla Chiesa lo stile puro, splendido e nuziale (Cfr. Eph. 5, 27), ch’ella deve, specialmente nel nostro tempo, rivestire per essere, quale dev’essere, amorosa di quel Cristo che l’ha amata fino a dare la sua vita per lei.
Di fronte al mondo contemporaneo
Due ottimi principii, illustrati autorevolmente dal Concilio: quello dell’aggiornamento, cioè del proprio rinnovamento, e quello dell’inserimento nell’affannosa e fermentante vita del mondo contemporaneo, ottimi, diciamo, e tuttora validi, non sempre sono stati bene interpretati e bene applicati. In alcuni ambienti si è non riformata e rinnovata la figura ideale della Chiesa, ma si è, almeno concettualmente, deformata. È balenata per alcuni spiriti inquieti e per molti sprovvisti di sufficiente cultura la formula, più o meno radicale, della «Chiesa senza». È: una formula che ha la sua storia: eresie e scismi, durante i secoli, se ne sono ampiamente serviti.
Si è cercato, ad esempio, di avere una Chiesa senza dogmi difficili, togliendo così dal tesoro della fede i misteri del Pensiero divino, e riducendo le Realtà della religione rivelata alla dimensione del cervello umano; processo reduttivo che pur troppo, qua e là continua a svuotare la dottrina cattolica del suo contenuto e della sua certezza. È sorta al fianco di questa prima «senza» un’altra Chiesa senza autorità, sia di magistero, che di governo, quasi fosse una Chiesa liberata e resa accessibile a quanti la vorrebbero puramente spirituale e indifferente a precetti morali oggettivi e sociali. Una Chiesa facile si è così vagheggiata, senza configurazioni gerarchiche, né giuridiche, una Chiesa senza obbedienza, senza norme liturgiche; una Chiesa senza sacrificio. Ma che cosa è una Chiesa senza la Croce?
Sì, vi è chi pensa potersi accontentare di Cristo, ma senza obbligo di contemplare la sua Croce, né di ammettere la sua Risurrezione, e per di più senza entrare nell’esperienza sacramentale e morale della nostra partecipazione a questo mistero pasquale e centrale di morte e di vita, soprannaturale.
La legge del sacrificio
E vi è chi pensa di supplire all’immenso vuoto che è denunciato da questa residua spiritualità senza vera ed esistenziale Redenzione, adottando un altro «senza» cioè togliendo dalla propria vita ogni barriera, ogni distinzione da quella del mondo profano, senza fede, senza speranza, senza carità, senza un costume degno e forte; fidando invece nelle ideologie altrui, e valendosi ancora in certa misura del tesoro di sapienza umana del Vangelo per fare dell’uomo, di sé, della propria personalità e della società stessa l’ideale, anzi l’idolo orientatore dei processi mentali e civili della vita; ma senza Dio, ormai, quale vita può reggere?
Figli e Fratelli carissimi! conserviamo il desiderio d’una vita modellata secondo lo stile cristiano. Lo stile cristiano non è sempre facile; è uno stile esigente, incomodo qualche volta e non sempre alla moda, lo sappiamo. Ma ricordate: esso non dev’essere giudicato solo da ciò che toglie, ma valutato da ciò che dà. E se esso è scolpito in noi dalla legge del sacrificio, cioè della Croce, ricordate, anzi sperimentate voi stessi il paradosso proprio dello stile cristiano, che consiste in una singolare fusione di freno e di spinta, di moderazione e di vitalità, di dolore e di gaudio, simultaneamente. La vita presente trova in questo stile la propria più alta e più piena espressione. «Io sovrabbondo di gaudio, diceva S. Paolo, in ogni nostra tribolazione» (2 Cor. 7, 4).