“La regina divenne una martire e la bambola un’eroina” – Maria Antonietta, arciduchessa d’Austria, regina di Francia e vedova Capeto

Discorso pronunciato alla V sessione dell’Accademia Jackson de Figueiredo, San Paolo, 21 agosto 1929 (*)

di Plinio Corrêa de Oliveira

 

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Maria Antonietta, Arciduchessa d’Austria, Regina di Francia e Vedova Capet

Monsignor direttore dell’Accademia,

Onorevoli membri dell’Académie

La semplice enumerazione dei titoli con cui Maria Antonietta d’Asburgo, poi Maria Antonietta di Borbone, fu conosciuta nel corso della sua breve vita, richiama alla mente la serie di eventi straordinari e imprevisti che costituirono il tessuto della più interessante esistenza femminile del XVIII secolo.

Nella sua prima fase, la vita di questa principessa fu felice e luminosa come un sogno dorato, in cui tutta la gloria del potere, tutto il fascino della fortuna e di una giovinezza radiosa erano riuniti in un’unica persona. Ma all’improvviso, questa lunga catena di felicità viene interrotta da un terribile tifone che fa naufragare la monarchia, profana gli altari e abbatte una nobiltà che, nel corso dei secoli, aveva scritto con la sua spada le pagine più brillanti della storia francese. E nel bel mezzo del crollo dell’edificio politico e sociale della monarchia borbonica, mentre il mondo intero sentiva la terra crollare sotto i suoi piedi, la gioiosa arciduchessa d’Austria, la gioviale regina di Francia, il cui portamento elegante ricordava una statua di Sèvres, e il cui riso aveva il fascino di una felicità incontaminata, bevve con dignità, sobrietà e ammirevole rassegnazione cristiana, i sorsi amari dell’immensa coppa di fiele con cui la Provvidenza divina aveva deciso di glorificarla. Alcune anime sono grandi solo quando le folate di sventura soffiano su di loro. Maria Antonietta, futile come principessa e riprovevolmente frivola nella sua vita di regina, fu trasformata in modo sorprendente dal diluvio di sangue e miseria che inondò la Francia; e lo storico nota pieno di rispetto che la regina divenne una martire e la bambola un’eroina.

Nel 1755, nel magnifico castello di Schönbrunn a Vienna, nacque l’arciduchessa Maria Antonietta, figlia dell’impetuosa Maria Teresa, regina d’Ungheria e Boemia, e di Francesco I, sovrano del Sacro Romano Impero. La differenza di carattere tra i suoi genitori spiega forse le sconcertanti contraddizioni che ritroviamo in tutte le azioni di Maria Antonietta e nel corso della sua vita. Maria Teresa era virile ed energica, al punto da opporsi gloriosamente al grande Federico di Prussia, e la forza con cui esercitava l’autorità regale sui suoi sudditi era tale che questi la chiamavano, anche nei documenti ufficiali più importanti, Re e non Regina. Francesco I, invece, era debole, pusillanime e poco intelligente. Si dice che, quando le ingiuste obiezioni di Voltaire alla forma monarchica furono ripetute in sua presenza, il povero sovrano, privo della cultura e dell’energia necessarie per difendere i principi di cui era custode, si limitò a dire ai suoi cortigiani: cosa vi aspettate, la mia carica mi obbliga a essere monarchico!

L’infanzia di Maria Antonietta trascorre nella pomposa corte di Vienna. La giovane arciduchessa aveva un’indole benevola, che combinava con uno spiccato gusto per l’apprendimento. Il suo fidanzamento con Mozart, il grande pianista, è noto ancora oggi. All’epoca, Mozart aveva solo cinque anni e credeva ingenuamente di essere fidanzato con la bella figlia dei sovrani del Sacro Romano Impero.

Ma la diplomazia di Choiseul, influente ministro del re di Francia Luigi XV, pose fine a questa infanzia serena favorendo il matrimonio di Luigi XVI, allora principe ereditario, con Maria Antonietta. Ovviamente, l’amore non aveva legato i cuori dei giovani principi. Si trattava semplicemente di un accordo diplomatico con il quale l’Austria, fedele alla sua politica matrimoniale e pensando solo ai propri interessi, rinunciava a una delle sue arciduchesse, a condizione di un certo compenso da parte della Francia.

Dopo gli ultimi negoziati diplomatici e i necessari saluti, la giovane Maria Antonietta partì per il Paese di cui sarebbe diventata la potente regina. Era accompagnata da un brillante seguito, composto da tutta la più alta nobiltà del Sacro Romano Impero. La curiosa cerimonia della “consegna dell’arciduchessa” ebbe luogo al confine con la Francia. Si trattava di un edificio composto da due parti assolutamente identiche, una in territorio francese e l’altra in territorio tedesco. L’entourage dell’arciduchessa entrò dalla porta tedesca e condusse Maria Antonietta nelle stanze dove si cambiò con gli abiti della principessa del Sacro Romano Impero e con quelli di una dama francese. Così vestita, Maria Antonietta entrò nella parte francese del palazzo, accompagnata solo dall’ambasciatore austriaco. Lì l’attendeva tutta la nobiltà, mostrando l’incomparabile eleganza, l’immensa ricchezza e il raffinato gusto artistico che caratterizzavano la corte francese dell’epoca.

Luigi XVI, allora semplice principe ereditario, era noto per il suo comportamento austero e per la pietà, la gentilezza e l’onestà che adornavano il suo carattere. I suoi più acerrimi avversari potevano rimproverargli solo tre cose: la sua apatia, la sua golosità e la sua abilità di fabbro. Nella nuova casa principesca, formata senza i legami di un affetto profondo, lo spirito cristiano di cui era intrisa la coppia compensava l’assenza di amore. Maria Antonietta e Luigi XVI furono sempre coniugi esemplari, che costruirono la felicità indiscussa della loro vita familiare sulle solide basi del rispetto reciproco e della moralità assoluta.

Gli anni tra il matrimonio e l’incoronazione furono forse i più felici della breve vita di Maria Antonietta. Bella, potente, ricca, ben sposata e affettuosamente venerata dal popolo, la giovane principessa non aveva altra occupazione che girare per i sontuosi palazzi della corona francese, portando con sé una corte sfarzosa e tutto il lusso scintillante di cui si circondava costantemente. Tra i problemi di questo periodo avventuroso ci furono i frequenti e interessanti alterchi con la contessa di Noailles, la sua severa maestra di etichetta, che la giovane principessa aveva impertinentemente soprannominato “Madame Étiquette”. Si racconta che una volta, quando Maria Antonietta cadde da un asino che stava cavalcando davanti a tutta la corte, si mise a ridere ed esclamò, ancora sdraiata a terra: “Chiama Madame Étiquette, così mi spiegherà come l’erede al trono di Francia deve rialzarsi quando cade da un asino”.

Uno dei tratti curiosi del carattere della giovane moglie di Luigi XVI era il suo ardente desiderio di avere un’amica intima, una confidente in ogni momento e in ogni situazione. Non appena varcò la soglia della porta che separava il passato dell’arciduchessa dal futuro della principessa di Francia, il suo sguardo cadde su una dama di bellezza ideale, la principessa di Lamballe, imparentata con la famiglia reale e sfortunata vedova di uno dei nobili più dissoluti di Francia. La Principessa di Lamballe era giovane, bella ed essenzialmente aristocratica, con un portamento aggraziato di impareggiabile eleganza. I suoi profondi occhi blu riflettevano tutto il candore della sua anima senza malizia, e l’immensa tristezza della sua giovinezza senza ridere. La sua delicatezza era tale che una volta svenne per la paura davanti al dipinto di un granchio. Fu la prima e più sincera amica di Maria Antonietta. Fu presto sostituita dalla frivola contessa di Polignac. La Principessa di Lamballe sopportò la sua partenza con la dignità di un’anima grande: non si lamentò né si avvilì. La Principessa di Lamballe riapparve solo nella scena tagliata e mutilata per le strade di Parigi, quando venne dall’Inghilterra in cerca della sfortunata martire, che la principessa perdonò così, nell’amarezza della sua sofferenza, per l’infedeltà del suo tempo di felicità. Lei, che era svenuta alla vista di un granchio dipinto, ha avuto abbastanza coraggio per sfidare il tifone rivoluzionario e morire per la causa dell’amica che, ai tempi del suo splendore, le era stato infedele.

Ma invece di esercitare un’influenza salutare su Maria Antonietta, la contessa de Polignac la condusse in un frenetico gioco d’azzardo. Il gioco d’azzardo estremamente costoso noto come Pharaon [Faraone] era in voga all’epoca. Le partite di Pharaon iniziavano la sera a casa dei Polignac e terminavano all’alba, agli occhi della popolazione scandalizzata dall’assidua compartecipazione dell’erede al trono. Questo fu un meritato motivo di censura per Maria Antonietta.

Poco tempo dopo, Maria Antonietta, che doveva essere regina di Francia, fu scoperta a un ballo popolare di carnevale a divertirsi, tra l’altro innocentemente, senza ricordare la dignità della sua carica. A poco a poco le voci si diffusero e, alla morte dell’anziano Luigi XV, Maria Antonietta salì al trono con molte antipatie.

Nonostante ciò, l’entusiasmo del popolo fu grande quando gli applausi annunciarono a Maria Antonietta, a notte fonda, che con la morte di Luigi XV era giunto il momento di incoronare il debole e buono Luigi XVI come Re di Francia e Navarra.

I festeggiamenti per l’incoronazione furono un curioso contrasto di miseria e sfarzo. Luigi XVI, dopo essere stato consacrato e incoronato Re di Francia nell’antica e sontuosa cattedrale di Reims, alla presenza di tutta la nobiltà e del clero di Francia, dopo essere stato unto dal rappresentante del Santo Padre con l’olio che, secondo la tradizione, era sceso dal cielo il giorno della conversione di Clodoveo, dopo aver ricevuto gli onori dei membri più rappresentativi e nobili della nazione, lasciò la cattedrale accompagnato dal vescovo di Autun, toccando con le mani le ferite di oltre 2.000 malati di ogni genere che, allineati alla porta della chiesa, attendevano la partenza del re che, secondo la tradizione, avrebbe dovuto curare alcune malattie con il semplice tocco delle sue mani sovrane. Si racconta che, presagendo tristi eventi, la corona, posta sul capo del re, cadde dalle mani del nunzio apostolico e, colpendo Luigi XVI sulla fronte, lo ferì fino a fargli uscire il sangue.

L’incoronazione segnò l’inizio del lungo calvario della regina. Il popolo soffriva la fame e non voleva capire che le spese di corte erano ampiamente necessarie per il decoro della monarchia. Il popolo, sempre vittima di subdoli sfruttatori, non capiva che la nobiltà godeva di grandi privilegi, ma che, d’altra parte, manteneva a proprie spese l’esercito e la marina, provvedendo al contempo alle spese di gran parte dell’amministrazione. Infine, il popolo non si è accorto che il clero, quella classe fervente che ha sempre combattuto per il bene, contro tutti i mali, per i deboli, contro tutti i potenti, e per Dio contro i suoi nemici, questo clero da solo ha pagato gli attuali ministeri francesi dell’Istruzione pubblica e degli Affari religiosi. No, i sofismi di una mente demolitrice come quella di Voltaire, l’eloquenza pietosa e perversamente vuota di Rousseau, avevano incancrenito l’intera società francese. Questa nobiltà frivola, che amava dimenticare il suo Dio, avrebbe presto dimostrato di aver dimenticato anche il suo Re, il suo passato e l’enorme peso di gloria rappresentato dalle tradizioni nobiliari di cui era custode. Questi nobili, i cui antenati erano stati leoni, erano stati trasformati in ballerini dalla vita dissipata e irreligiosa della corte. E il popolo, spinto più dall’invidia che dalla fame, dimenticando che svolgere un ruolo umile nella società è anche adempiere a un mandato divino, si scatena contro l’organizzazione politica della Francia.

Il 14 luglio, l’invasione di Versailles da parte di un gruppo di cattive donne che si trascinava dietro la feccia del popolo parigino, imponendo il berretto frigio al debole re e insultando meschinamente una monarchia incapace di difendersi, il massacro di sacerdoti innocenti che avevano pagato con la vita l’enorme crimine di essersi dedicati anima e corpo al servizio di Dio, pregando il suo santo Nome e sua legge di pace e di amore, l’assassinio di diversi nobili che non volevano abbandonare il trono attorno al quale avevano passato la vita a danzare, questa orribile catena di crimini che ha macchiato le pagine della storia dell’umanità avrebbero scacciato la regina di Francia, la figlia degli fieri Asburgo? Mai! Mai questa bambola di porcellana dei balli del Trianon chinò la testa di fronte all’ignominia dei suoi nemici. Mai, nemmeno per un momento, la sovrana detronizzata cessò di essere regina, perché, più nella sofferenza che nella gloria, dimostrò, affrontando disarmata e con il figlio al braccio i furiosi ubriaconi che invadevano i palazzi reali, di appartenere a quella razza che non teme il pericolo, soprattutto quando questo rappresenta una giusta causa.

Con la regalità trascinata nel fango di Parigi e la debole personalità di Luigi XVI piegata sotto il peso della disgrazia, l’unico baluardo di resistenza fu Maria Antonietta che, trasformando la sua disgrazia in un trono splendente per la sua personalità, armata solo della sublime armatura della fede cristiana e della rassegnazione, sfidò con grandezza e senza paura l’onda che stava per travolgere la Francia.

Fino all’ultimo momento, questa sovrana volle salvare il suo trono, non per interesse personale, ma per amore del principio monarchico. E lo fece senza esitare, incoraggiando tutti e non disperando mai, anche quando la folla la trascinò dalle Tuileries, dove era tenuta prigioniera, e la condusse, al suono dei clamori e dei fischi della plebe, nell’ombra mortale della lugubre prigione del Tempio, anche quando fu costretta a vedere, con orrore e rimorso, la testa dell’impavida  Principessa di Lamballe, con gli occhi cavati, i capelli impolverati, schizzati di sangue, le labbra livide, posta all’estremità di un palo tra le sbarre della finestra della sua prigione, a testimonianza della morte atroce e immeritata della sua migliore amica.

Questa, signori, era la sua tortura da regina. Era completa, non mancava nulla, ed ella la sopportò con calma e rassegnazione, guadagnandosi talvolta grida di ammirazione da parte dei suoi stessi avversari.

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Dalla sua prigione della Conciergerie, Maria Antonietta inviò questa ultima lettera alla cognata Madame Elisabeth di Francia, in cui esponeva le sue ultime volontà, che sarebbero rimaste inascoltate. La lettera non raggiunse mai la destinataria, che fu anch’essa ghigliottinata in nome di “libertà, uguaglianza e fraternità”…

Come sposa, Maria Antonietta subì il più grande dei martiri. Suo marito, al quale aveva dedicato tutti i sentimenti di una sposa cattolica esemplare, dopo essere stato bersaglio degli affronti più crudeli, fu infine trascinato a una morte che sarebbe stata gloriosa per i postumi, ma che all’epoca sembrò assolutamente deprimente.

Dalla sua prigione nel Tempio, Maria Antonietta ha certamente sentito il rullo di tamburi che annunciava che la Convenzione Nazionale, in nome dell’uguaglianza, stava distruggendo l’innocente rappresentante della regalità, che in nome della libertà gli impediva di dare l’addio, sulla tomba, al suo popolo che amava profondamente, e che in nome della fraternità gli avrebbe tolto la vita sulla ghigliottina.

Ma, signori, fu Maria Antonietta, in quanto madre, a subire le torture più terribili. Quando la Convenzione venne a separare Maria Antonietta dal figlio per due ore, coprendo il suo corpo con quello dell’innocente principino, ella lottò contro il brutale calzolaio Simon e la sua sinistra banda, abbandonando il figlio solo quando non ebbe più la forza di resistere. I mesi di separazione furono lunghi. Sola, terribilmente sola, rinchiusa sotto gli occhi di tutti in un’orribile stanza della prigione del Tempio, l’unica consolazione della sfortunata donna, tra l’altro  potente, fu la preghiera. Ancora oggi la Francia conserva il suo libro della Messa, sul quale devono essere scorse le lacrime amare di questa madre che, al culmine della sua disgrazia e del suo abbandono, sapeva sempre come ringraziare Dio per l’impotenza in cui si trovava.

Infine, fu perseguita dal Comité de Salut Public per aver tradito il suo Paese, per essere stata una nuova Caterina de Médicis, per essere stata una cattiva sposa e una cattiva madre e soprattutto per il motivo meno dichiarato di essersi opposta alle pretese eretiche di una certa associazione caritatevole segreta non del tutto sconosciuta.

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Maria Antonietta davanti al Tribunale rivoluzionario (dipinto di Pierre Bouillon)

Le sue sofferenze culminarono nel processo. Suo figlio, brutalizzato dall’alcol, divenne un vero e proprio animaletto il cui unico sentimento permanente era la paura. Immaginate la scena: su una piattaforma siedono i boia, che poi si proclamano giudici. Su una serie di banchi, una mezza dozzina di individui disgustosi, che puzzano di alcol, svolgono il ruolo di giurati. La Regina, magra, in un lungo abito nero, con i capelli completamente grigi, vecchia nella sua sparuta e triste giovinezza, entra con tutta la maestosità della sua decadenza, ancora fiera, ancora bella, ancora dignitosa e invincibile, in questa gabbia dove la sua reputazione e il cuore di madre saranno fatti a pezzi dalle bestie più insensibili della storia della Francia.

L’interrogatorio inizia in modo brutale, subdolo, perverso. La regina risponde con dignità o tace, disdegnando con il suo silenzio l’infamia di certe accuse. Poi entra nella stanza il principe ereditario di Francia e Navarra. Vestito di rozzi zoccoli, con un berretto frigio in testa, ha l’aria brutale e triste di chi ha subito a lungo tutti gli orrori della barbarie di un boia come Simone, e con la stupida fisionomia di un alcolizzato incallito, con voce lacrimosa, lancia i più grandi insulti a sua madre. Questo, signori, è il massimo della sofferenza. La scena, di per sé orribile, non ha bisogno di commenti. Vi dirò solo che la Regina, in un magnifico grido di un cuore materno ulcerato dal dolore più atroce, lancia, nell’eloquenza della sua allucinazione, nell’orrore della sua sofferenza dantesca, un appello a tutte le madri presenti, chiedendo loro se credono agli insulti del bambino. E, come se la natura umana, nel profondo di quei cuori bisbetici, così a lungo repressa, fosse finalmente esplosa, ci fu una pioggia di applausi nell’aula, e un delirio di entusiasmo da parte del popolo che era venuto in tribunale per assistere al feroce svolgimento del processo, improvvisamente riempito da un enorme entusiasmo per la loro vittima, e Maria Antonietta, sul banco degli imputati, al culmine dell’ignominia, ricevette una tremenda e sentita ovazione dai suoi carnefici. Cosa possiamo dire, signori, di questo evento storico?

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L’esecuzione di Maria Antonietta a Parigi, in Place de la Révolution, oggi Place de la Concorde

Infine arriva la morte. Dio, nella sua immensa bontà, aveva preparato un posto in cielo degno di colei che aveva tanto sofferto, amandola più quando le mandava i dolori che quando era nella pienezza dei suoi piaceri. Il 16 ottobre 1793, il suo lungo martirio si conclude sulla ghigliottina, la cui lama, criminale e caritatevole, taglia il filo della sua straordinaria esistenza.

Si concludeva così la sovrana martire, la cui storia ricorda un delicato minuetto suonato in un palazzo, le cui note armoniose vengono improvvisamente soffocate dal terrificante fragore di una spaventosa folla rivoluzionaria.

(*) Nota: primo discorso pubblico di Plinio Corrêa de Oliveira, che lo ha scritto a macchina e firmato nell’ultima pagina, ritrovata insieme ai documenti che ha lasciato.

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