Catechismo delle verità opposte agli errori del nostro tempo, I – Sulla Liturgia

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Messa pontificale nella Basilica di San Pietro

 

– indica la proposizione falsa o almeno pericolosa.

* indica la proposizione certa.

1
Il fedele; quando assiste alla S. Messa e pronuncia col Celebrante le parole della consacrazione, coopera alla transustanziazione e al sacrificio.
* Il fedele è incapace di concelebrare col sacerdote cooperando alla transustanziazione, perché gli manca il Sacramento dell’Ordine, che comunica tale capacità.
Spiegazione
Solo il Sacramento dell’Ordine conferisce il potere e la capacità di operare la transustanziazione nel Sacrificio della Legge Nuova. Il semplice fedele è perciò incapace di farlo. Quella proposizione rinnova l’eresia protestante, condannata nel Concilio di Trento (sessione 23, cap. 4) e nuovamente proscritta nella “Mediator Dei” di Sua Santità Pio XII (A. A. S. 39, p. 556).
2
Il fedele concelebra col Sacerdote il S. Sacrificio della Messa.
* Il fedele partecipa al Sacrificio della Messa.
Spiegazione
Queste due proposizioni richiedono una piccola spiegazione. Non si può dire mai che il fedele concelebra col Sacerdote; poiché l’espressione “concelebrare” si riferisce, nella Chiesa, alle Messe in cui si ha più di un celebrante e tutti concorrono attivamente all’offerta del Sacrificio e alla transustanziazione: per esempio, le Messe di ordinazione sacerdotale, nelle quali i neo-sacerdoti concelebrano col Vescovo la Messa nella quale sono ordinati.
Anche la proposizione in cui si dichiara che i fedeli partecipano del Sacrificio della Messa richiede una dilucidazione. Molti la intendono nel senso che i fedeli concelebrano il Sacrificio. Sarebbe una ripetizione dell’errore contemplato nel paragrafo 1. Altri la intendono nel senso che il Sacerdote non sarebbe altro che un rappresentante del popolo, i cui atti sacerdotali avrebbero valore solo in quanto egli rappresenta i fedeli. Non è così che deve intendersi, come bene insegna la “Mediator Dei” (A. A. S. 39, pp. 555, 556). Il Sacerdote, infatti, non è un deputato del popolo (“Mediator Dei” A. A. S. 39, p. 538), giacché è scelto per vocazione divina e generato dal Sacramento dell’Ordine (“Mediator Dei” ibidem, p. 539). Non si vuol dire con ciò che il Sacerdote non rappresenti in certo senso il popolo. Lo rappresenta, in quanto rappresenta Gesù Cristo, Capo del Corpo mistico, del quale i fedeli costituiscono le membra (“Mediator Dei” ib. p. 538); sicché quando il Sacerdote offre all’altare, ·10 fa in nome di Cristo, Sacerdote principale, il quale offre in nome di tutti i membri del suo Corpo Mistico. Quindi, in certo senso, il sacrificio è offerto in nome del popolo. Il quale deve, pertanto, partecipare del Sacrificio. In qual modo? Dice la “Mediator Dei”: “in quanto unisce i suoi voti di lode, di impetrazione, di espiazione e di ringraziamento· con i voti e l’intenzione del Sacerdote, ed anche del Sommo Sacerdote, affinché nella stessa oblazione della vittima che si opera nel rito esterno dal Sacerdote, siano presentati allo Eterno Padre” (ib. p. 556).
Si ha, quindi, un senso reale nell’espressione “partecipare” che può essere usato, purché si abbia cura di farlo in modo da escludere qualsiasi senso meno esatto.
3
Il fedele che segue la Messa col Messale, partecipa della Messa; il fedele che segue la Messa in qualsiasi altro modo vi assiste solamente.
* La partecipazione del fedele al S. Sacrificio della Messa consiste nell’unione con le intenzioni del Sommo Sacerdote Gesù Cristo e del Sacerdote celebrante. Qualsiasi modo – Messale, Rosario, Meditazione, ecc… – sarà perfetto se sarà efficace a produrre tale unione.
Spiegazione
La sentenza impugnata rinnova lo spirito giansenista contenuto in questa proposizione di Quesnel, condannata da Clemente XI, nella Bolla “Unigenitus” dell’otto settembre 1713: “Togliere al popolo semplice questa consolazione, di unire la sua voce alla voce di tutta la Chiesa, è costume contrario alla pratica apostolica e all’intenzione divina” (prop. 86, Denzinger 1436).
Per sé non è questa che una conseguenza della dottrina erronea secondo la quale il fedele concelebra col Sacerdote la S. Messa, dovendo perciò pronunziare con lui le parole liturgiche. Chi non pronunziasse queste parole non parteciperebbe della Messa, “assisterebbe” soltanto, resterebbe in una posizione meramente passiva, mentre invece la “Mediator Dei” insiste sull’unione con le intenzioni di Gesù Cristo e del Celebrante ma dà piena libertà ai fedeli in ciò che riguarda il metodo da seguire per raggiungere tale fine.
Siamo lontani con ciò dallo sconsigliare l’interesse per tutto ciò che ha rapporto con la Messa e quindi anche per la conoscenza del Messale, delle preghiere e delle cerimonie del S. Sacrificio, ecc. Si eviti la confusione, propria dei Riformatori del sec. XVI, tra fedele e sacerdote, così come è necessario rispettare la libertà dello Spirito Santo che – sempre entro l’obbedienza che i fedeli devono alla S. Gerarchia – li orienta con le sue grazie secondo il suo ineffabile beneplacito: “Spiritus ubi vult spirat” (Giovanni III, 8).
4
Si deve assistere alla Messa soltanto seguendo le parole del Messale. Si devono escludere, durante il Sacrificio, le orazioni private, come il Rosario, la Meditazione. ecc. … Solo la Messa dialogata e “versus populum” è coerente con la posizione del fedele nel Santo Sacrificio.,
* L’uso del Messale, la recita del S. Rosario, la Meditazione o altre orazioni convenienti sono tutti mezzi eccellenti d’assistere al S. Sacrificio della Messa. Il fedele ha quindi libertà di ritenere quel che meglio contribuisca alla sua unione con le intenzioni di Gesù Cristo e del Sacerdote celebrante. Tutti i metodi di assistenza alla Messa approvati dalla Santa Chiesa sono interamente coerenti con la posizione del fedele nel S. Sacrificio. Qualunque esclusivismo, in questo punto, è riprovevole.
Spiegazione
La proposizione impugnata è intimamente connessa col falso principio del sacerdozio formale dei fedeli, sopra ricordato. L’enciclica “Mediator Dei” approva e promuove il genuino movimento liturgico. Solo tutto ciò che conduce i fedeli a conoscere e amare la Sacra Liturgia merita lode. Il male comincia quando, talvolta, dei falsi presupposti teologici viziano lo spirito con cui si diffonde la pietà liturgica. Proprio su tale considerazione si fonda la “Mediator Dei” per censurare e condannare le stravaganze che sono sorte nel campo della pietà liturgica.
5
L’altare dev’essere in forma di mensa, tale da ricordare la Cena Eucaristica.
* “È fuori strada chiunque voglia restituire all‘altare l’antica forma di mensa” (“Mediator Dei”).
Spiegazione
Conviene rilevare la coerenza dottrinale esistente tra le molteplici proposizioni sin qui impugnate. Esse derivano dalla falsa supposizione che i fedeli partecipino del sacerdozio di Gesù Cristo nella stessa maniera in cui vi partecipano i Sacerdoti, anche se in grado forse minore. Vi è invece, tra le due specie di partecipazione, una differenza così specifica, che il Santo Padre non esita a paragonarla con la differenza che corre tra un pagano e un fedele. Come il pagano resta fuori dell’unione col Corpo Mistico di Cristo, così il semplice fedele resta fuori del sacerdozio proprio dei Sacerdoti ed è fondamentalmente incapace di qualsiasi atto specificamente sacerdotale (Cfr. “Mediator Dei” A. A. S. v. 39 pag. 539). L’errore impugnato si ricollega a una novità protestante, che i giansenisti si sforzarono di mantenere nel seno della Chiesa, spinti dalla stessa pretesa di riformarla intrinsecamente, trasformandola da società monarchica e aristocratica in società democratica.
Si ponga mente alla seguente proposizione, che appartiene a quelle del Sinodo di Pistoia, condannate dalla bolla “Auctorem fidei” di Pio VI (28 agosto 1794):
“La proposizione che stabilisce che il potere è stato dato da Dio alla Chiesa perché sia comunicato ai pastori, i quali sono suoi ministri per la salvezza delle anime, intesa in questo senso, che dalla comunità dei fedeli derivi ai pastori il potere di ministero e di governo, è eretica» (prop. 2, D. 1502).
6
La Comunione “extra Missam”, le visite al SS. Sacramento, il culto prestato alle S. Specie, ·l’adorazione perpetua, la benedizione col Santissimo, costituiscono forme extra-liturgiche di pietà e come tali devono a poco a poco essere soppresse.,
* Tutte le forme di culto al SS. Sacramento costituiscono forme preziose di pietà e come tali devono essere incoraggiate. Quantunque sia consigliabile la Comunione intra Missam”, il ricevere la SS. Eucaristia fu ori della Messa è un mezzo di partecipare regolarmente al Sacrificio Eucaristico (“Mediator Dei”).
Spiegazione
La sentenza impugnata suppone che sia superflua ogni forma di pietà privata, il che costituisce un errore condannato dalla “Mediator Dei” (A. A. S. 39, p. 565, 566 e 583 e ss.). Sotto altra forma essa rinnova lo spirito delle proposizioni condannate dal Concilio di Trento, nei canoni 5, 6, 7 della sessione XIII (D. 887-889).
7
La celebrazione simultanea di varie Messe rompe l’unità del Sacrificio sociale.
* La simultaneità di varie Messe non rompe l’unità del Sacrificio sociale della Chiesa.
Spiegazione
“Non sbaglia chi afferma che i Sacerdoti non possono offrire la Vittima divina nello stesso tempo in molti altari, perché in questo modo dissociano la comunità e pongono in pericolo l’unità”. È sentenza riprovata dalla “Mediator Dei”. La ragione è ovvia: ogni sacrificio della Messa ha valore soltanto per la sua relazione intrinseca col Sacrificio della Croce, che fu uno solo e valido per tutti i tempi; per conseguenza, anche se molte siano le Messe, rimane di fatto l’unità essenziale del Sacrificio.
La sentenza impugnata riecheggia l’errore giansenista condannato dalla Costituzione “Auctorem fidei” di Pio VI, il 28 agosto 1794, al n. 31, che suona così: “La proposizione del Sinodo che afferma esser conveniente, per il buon ordine degli uffici divini e secondo l’antico costume, che in ciascuna chiesa vi sia solamente un altare, e che gli piacerebbe vedere ripristinato tale costume – è dichiarata temeraria, ingiurio a verso un uso antichissimo, pio, in vigore e approvato già da molti secoli, particolarmente nella Chiesa Latina”.
8
I nostri altari non devono avere immagini, tranne il Crocifisso.
* Non vi è il menomo inconveniente nel fatto che, oltre il Crocifisso, vi siano altre immagini sull’altare, quando non occupino il posto riservato ad esso.
Spiegazione
La consuetudine di collocare immagini sull’altare è del tutto coerente con la dottrina cattolica intorno al culto che si deve prestare ad esse.
La sentenza impugnata è in contrasto con lo spirito inculcato dalla “Mediator Dei” che raccomanda l’esposizione delle immagini dei Santi nelle chiese, per edificazione dei fedeli, e riprova coloro che desidererebbero ritirare tali immagini (A. A. S. 39, p. 582 e 546).
Il presupposto di tale sentenza si riallaccia chiaramente all’errore protestante di un solo e unico Mediatore, che non tollera mediatori secondari.
9
Il fedele, quando recita l’Ufficio divino, fa opera liturgica.
* L ‘orazione liturgica, che è fatta in nome della Chiesa, coi termini e i riti proposti da essa, può esser fatta solo dai chierici e dai religiosi di ciò incaricati. L’orazione del semplice fedele è sempre orazione privata, qualunque sia il suo testo, liturgico o extra-liturgico.
Spiegazione
L’ufficio divino è l’orazione del Corpo Mistico di Cristo, rivolta a Dio in nome di tutti i cristiani e in loro beneficio, essendo fatta dai Sacerdoti, da altri ministri della Chiesa e dai Religiosi delegati dalla stessa Chiesa a questo» (“Mediator Dei” A. A. S. 39, pag. 573).
10
Per la vita spirituale del fedele e per la sua unione con Gesù Cristo basta che partecipi degli atti liturgici, recitando i testi ufficiali.
* La vita spirituale del fedele consta necessariamente non solo della partecipazione alla S. Messa e ai Sacramenti, ma anche degli atti di pietà privata, senza i quali la salvezza è impossibile.
Spiegazione
La sentenza impugnata è stata condannata anche nella “Mediator Dei”: “Da questi profondi argomenti alcuni concludono che tutta la pietà cristiana deve accentrarsi nel Mistero del Corpo Mistico di Cristo, senza alcuna considerazione personale e soggettiva, e perciò sostengono che si debbano trascurare le altre pratiche religiose non strettamente liturgiche e realizzate fuori del culto pubblico. Nondimeno tutti possono comprendere come tali conclusioni intorno alle due specie di pietà sono completamente false, insidiose e dannosissime” (A. A. S. 39, pag. 533).
Del resto, il Codice di Diritto Canonico prescrive agli stessi Sacerdoti, capaci di orazioni liturgiche, una fervorosa pietà privata (Can. 125, paragrafo 2).
11
Costituisce moralismo retrogrado il proibire ai fedeli di frequentare i balli, i ritrovi danzanti, le piscine. Alimentati dalla pietà liturgica, essi possono frequentare questi ambienti senza timore e praticarvi l’apostolato di penetrazione irradiando il Cristo con la loro presenza.
* Non v’è spiritualità che immunizzi l’uomo contro il pericolo delle occasioni prossime e volontarie di peccato, dalle quali deve astenersi anche con grave incomodo. L’apostolato esercitato con pericolo prossimo della salvezza è temerario e non può contare sulle benedizioni di Dio.
Spiegazione
La sentenza erronea sarebbe vera nel presupposto che esistesse una unione (sacramentale e vitale) con Dio, ottenuta per mezzo della liturgia, non soltanto superiore ma persino estranea all’unione morale; oppure, in altra ipotesi, che la vita della grazia fosse tale da dispensare l’uomo dalla sua cooperazione. Ma nessuno di questi presupposti può essere accettato da chi professa la genuina dottrina cattolica. Oggi come sempre la Santa Sede e i moralisti premuniscono i fedeli contro i divertimenti che costituiscono occasione prossima di peccato.
La sentenza impugnata ricorda il quietismo condannato da Innocenzo XI il 28 agosto e il 27 novembre del 1667. Tra le proposizioni condannate vi è questa: “Se qualcuno scandalizzerà un altro coi propri difetti, non gli è necessario ritornare su se stesso dato che non abbia volontà di dare scandalo; ed è una grazia di Dio non poter ritornare sopra i propri difetti» (D. 1230). La sentenza impugnata, infatti, rientra nell’errore della santificazione automatica, senza nessun concorso della volontà umana.
12
Lo stato matrimoniale dev’essere innalzato sopra lo stato di castità perfetta, essendo santificato da un Sacramento.
* Il grado di perfezione di uno stato di vita si misura dalla maggiore unione con Dio, che ordinariamente si ottiene con la grazia santificante e la carità. Perciò deve supporre maggiore abnegazione in chi lo abbraccia e deve fornirgli maggiori mezzi di santificazione. Sicché lo stato di perfezione per eccellenza è lo stato religioso, e lo stato di castità perfetta è più elevato di quello matrimoniale.
Spiegazione
Non si può afferma re che ogni stato che sia costituito da un Sacramento sia, solo per questo, più perfetto di qualunque altro. Così, bensì non vi sia un Sacramento speciale per lo stato religioso, è risaputo che il Signore ha indicato nella pratica dei consigli evangelici il culmine della perfezione. Quanto alla superiorità della verginità sulla continenza matrimoniale si legga il cap. VII della I Lettera ai Corinzi, e la “Secunda secundae” della Somma Teologica di San Tommaso, q. 152, a. 4, come anche, nella stessa parte, la q. 40, a. 2, ad quartum. La verginità, del resto, può essere considerata come frutto del Sacramento dell’Eucaristia, che la rende possibile ai mortali.
La sentenza impugnata fu varie volte censurata dalla Chiesa. Così nel Sillabo di Pio IX, N. B. dopo la proposizione 74a (D. 1774 A); nella Allocuzione alle Religiose di Pio XII, del settembre 1952 (Cfr. Atti e Discorsi di Pio XII, vol. XIV), nella quale il Santo Padre biasima quei Sacerdoti, laici, predicatori, oratori che “non hanno più una parola di approvazione o di lode per la vergine consacrata a Cristo; e che da anni, nonostante gli avvertimenti della Chiesa e contrariamente al suo pensiero, concedono al matrimonio una preferenza di principio sulla verginità; che arrivano persino a presentarlo come unico mezzo capace di assicurare alla personalità umana il suo sviluppo e la sua perfezione naturale”. Le stesse idee troverete nella allocuzione del 2 3 novembre 1952 a un gruppo di giovani donne, nella quale ripete che la vocazione religiosa rimarrà sempre uno stato più perfetto in confronto del matrimonio.
Non è necessario aggiunger parole per denunciare il male immenso che codeste idee fanno nella nostra diocesi, dove la propaganda protestante contro il celibato costituisce una delle armi con cui gli eretici sfogano il loro odio contro tutto ciò che è della Chiesa di Dio.
13
Essendo la Parrocchia una comunità, il mantenimento della vita comunitaria richiede che tutti i parrocchiani partecipino uniti allo stesso Sacrificio, ricevano le grazie dello stesso Pane spirituale e uniscano le loro orazioni nello stesso tempo. Il fatto che i fedeli frequentino altre parrocchie o chiese non parrocchiali, rompe l’unità della vita comunitaria.
* La Parrocchia è la cellula della Diocesi e, come tale, è necessario che tutti i parrocchiani mantengano un vivo contatto col Parroco e stiano sotto la sua direzione. Tale contatto e direzione è del tutto compatibile col fatto che i fedeli ricevano i Sacramenti e assistano alla S. Messa in altre chiese, sicché non devono essere proibite o sconsigliate siffatte pratiche.
Spiegazione
Se per vita comunitaria s’intende la partecipazione· dei fedeli agli stessi misteri sopranna turali, essa non perde la sua intensità per il fatto che i parrocchiani partecipino di tali misteri in chiese differenti. Se per vita comunitaria s’intende un identico convito edificante, tale convito è possibile per i fedeli in altra chiesa che non sia la parrocchia.
Poniamo l’esempio di una persona che frequenti una chiesa di Religiosi; l’incontrarsi lì con dei fedeli edificanti della propria o di altre parrocchie, le può essere altamente benefico. E i vantaggi che in tal modo riceverà hanno necessariamente un influsso benefico sulla sua stessa parrocchia.
Molto efficace per l’esatta comprensione di quest’argomento sarà l’azione dei Religiosi e dei Rettori di chiese non parrocchiali: istruiscano essi i fedeli sui loro doveri verso la Parrocchia e il Parroco e siano sempre solleciti nell’aiutare i Parroci in tutto ciò che ha rapporto con la vita parrocchiale.
Come generalmente si nota un sapore giansenista in tutti codesti errori, così è da ricordare anche qui che furono gli intrighi dei Giansenisti a porre in voga quel falso spirito parrocchiale che regnò in Parigi nel secolo XVII e preparò i Parroci al giuramento costituzionale della Rivoluzione Francese; come fu pure codesto medesimo spirito che dettò, nel Sinodo di Pistoia, le norme restrittive per la vita dei Religiosi, norme fortunatamente condannate da S. S. Pio VI.
Nondimeno sarebbe censurabile quel parrocchiano che sconoscesse completamente il suo Parroco; giacché questi dev’essere informato sul compimento dei doveri religiosi da parte di tutti i suoi fedeli. È quel che si deduce dal Codice di Diritto Canonico, che, al can. 859, paragrafo 3°, consiglia i fedeli di far Pasqua nella propria chiesa parrocchiale ed ordina, in caso contrario, di informa re il proprio Parroco.
La sentenza impugnata meglio si adatterebbe a una concezione ontologica di una “comunità parrocchiale” in cui, attraverso la partecipazione alle funzioni liturgiche, si intendesse assorbire i parrocchiani in un sol tutto essenziale di ordine superiore, il Cristo Mistico e comunitario. La comunità parrocchiale ontologica si proietterebbe anche nel campo temporale facendo della parrocchia un tutto nel quale si amalgamerebbero, completamente o quasi, le famiglie e le proprietà, in una partecipazione quasi biologica di ogni sorta di beni. Anche nell’ordine temporale le personalità individuali si amalgamerebbero così in una sola personalità collettiva.
Supposta però la comunità non come fatto ontologico ma come fatto morale, ancorché soprannaturalizzato dalla grazia, la sentenza erronea manca totalmente di fondamento.

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