7 dicembre, Sant’Ambrogio: la forza dell’ortodossia che fa indietreggiare un potente eterodosso

di Plinio Corrêa de Oliveira

 

Riunione per soci e cooperatori della TFP brasiliana del 7 dicembre 1964. Il testo è tratto dalla registrazione magnetofonica, senza revisione dell’autore

 

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Santo Ambrogio caccia gli ariani (Giovanni Ambrogio Figino, 1590)

Sant’Ambrogio era un uomo di un enorme talento, famoso in tutta la Cristianità del suo tempo, in tutta l’immensità dell’Impero Romano, per le sue opere, per la sua influenza pubblica, come scrittore prolifico e per tanti altri pregi. Sant’Agostino racconta nelle sue memorie (le «Confessioni») che dovette a lui la propria conversione. Nutriva una vera ammirazione per Sant’Ambrogio:

“Non t’invocavo ancora con gemiti affinché venissi in mio aiuto. Il mio spirito era piuttosto attratto dalla ricerca e mai sazio di discussioni. Lo stesso Ambrogio era per me un uomo qualsiasi, fortunato secondo il giudizio mondano perché riverito dalle massime autorità; l’unica sua pena mi sembrava fosse il celibato che praticava. Delle speranze invece che coltivava, delle lotte che sosteneva contro le tentazioni della sua stessa grandezza, delle consolazioni che trovava nell’avversità, delle gioie che assaporava nel ruminare il tuo pane entro la bocca nascosta del suo cuore, di tutto ciò non potevo avere né idea né esperienza. Dal canto suo ignorava anch’egli le mie tempeste e la fossa ove rischiavo di cadere. Non mi era infatti possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo.

“Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell’angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l’alimento indispensabile, o l’anima con la lettura. Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente.

“Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa? Poi ci allontanavamo, supponendo che aveva piacere di non essere distratto durante il poco tempo che trovava per ricreare il proprio spirito libero dagli affari tumultuosi degli altri. Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attento a spiegare qualche passaggio eventualmente oscuro dell’autore che leggeva, o a discutere qualche questione troppo complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volumi inferiore ai suoi desideri. Ma anche la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale. Ad ogni modo, qualunque fosse la sua intenzione nel comportarsi così, non poteva non essere buona in un uomo come quello”. («Confessioni», VI, 3).

In altre parole, per il solo fatto di vedere Sant’Ambrogio al lavoro e di trovarsi nell’atmosfera creata da quel Dottore della Chiesa, Sant’Agostino ricavava un grande beneficio per la propria anima. Si può dunque affermare che, per i vari colloqui occorsi tra loro, per le omelie ascoltate ed anche per la lettura delle sue opere, Sant’Ambrogio ebbe un ruolo centrale in ciò che forse fu l’aspetto più importante della sua vita: la conversione di Sant’Agostino che, di per sé, rappresenta un capitolo cruciale nella storia del mondo e della Chiesa.

Vediamo in questo episodio due aspetti molto belli di Sant’Ambrogio:

1) Ciò che possiamo chiamare l’apostolato della presenza. Insistiamo molto sull’importanza di questo apostolato. Infatti, in ambito cattolico molte persone credono di valere qualcosa nella misura in cui parlano, agiscono e lavorano. Ovviamente tutto ciò è molto buono. Ma vi è pure l’apostolato della mera presenza che può rappresentare qualcosa di superiore e di più utile.

2) Dall’altro lato, la fiducia nella Provvidenza divina. Se Sant’Ambrogio fosse intemperante, egli avrebbe interrotto ogni attività e si sarebbe occupato esclusivamente dell’apostolato con Sant’Agostino, salvo poi riprendere, sempre in modo disordinato, a lavorare. O peggio: avrebbe trascurato i propri scritti, magari pubblicando appena qualche libretto, pur di accudire Sant’Agostino.

Non così Sant’Ambrogio. Da uomo fiducioso nella Provvidenza, nell’amor di Dio e nella Chiesa, egli realizzava ciò che rientrava nelle sue possibilità. Se era la volontà di Dio che scrivesse un libro, egli lo scriveva, riservando a Sant’Agostino quei brevi minuti di cui poteva disporre. Per il resto Dio avrebbe provveduto… e infatti provvide! Dunque, una fiducia nella Provvidenza nel non voler commettere insensatezze né assurdità, nell’essere temperante anche nel proprio zelo apostolico. Ecco un atteggiamento carico di lezioni.

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Ancor più ricco di lezioni, da un altro punto di vista, fu l’episodio in cui Sant’Ambrogio dovette affrontare l’Imperatore Teodosio. Vi sono eventi nella vita della Chiesa che rimangono impressi come simboli per tutti i secoli. Tale fu il contrasto fra Sant’Ambrogio e Teodosio, a proposito di un suo peccato pubblico.

La precedente buona intesa fra Sant’Ambrogio e Teodosio, stabilitosi a Milano, si era spezzata in seguito a un atto delittuoso. L’imperatore aveva ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del presidio romano della città, che aveva incarcerato un commediante molto amato dalla gente. In tre ore di carneficina erano state assassinate settemila persone, attirate nell’arena con il pretesto di una corsa di cavalli.

 

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Sant’Ambrogio proibisce all’Imperatore Teodosio di entrare nella Cattedrale di Milano  (Antonio van Dycj – 1619)

Con tatto, ma anche con molta fermezza, Sant’Ambrogio lo rimproverò, proibendogli di entrare nella cattedrale finché non avesse fatto penitenza pubblica per il peccato commesso. Nel momento in cui Teodosio si apprestava ad entrare nella Basilica di Santa Tecla, incontrò Sant’Ambrogio con tutto il suo clero in piedi sul sagrato, sbarrandogli l’ingresso. Umiliato, l’Imperatore fece atto di pubblica penitenza nella notte di Natale di quel anno.

Nel discorso funebre per questo imperatore, Sant’Ambrogio narra così l’episodio: “Spogliandosi di ogni regale emblema, egli pianse il proprio peccato pubblicamente, in chiesa. Questa penitenza pubblica, di cui sfuggono i particolari, l’imperatore non si vergognò di farla; e dopo non vi fu un solo giorno in cui non si affliggesse per il proprio errore”.

Questo atteggiamento del potere spirituale nei confronti del potere temporale ricorda un principio a noi molto caro. Quando una grandezza umana – a prescindere dalla sua natura o titolo, e per quanto esaltata e glorificata possa essere nella società civile – si mette in posizione di sfidare la gloria di Dio, spetta alla Chiesa la missione di umiliarla.

Quando le potenze umane smarriscono la strada, è missione della Chiesa affrontarle e metterle in riga. È missione della Chiesa il sottolineare come tutte le cose umane, per quanto elevate, dinanzi a Dio non sono niente. Di fronte all’eternità, le grandezze umane si riducono a nulla. In fin dei conti, l’unica cosa che rimane per sempre, come un valore al di sopra di tutto, è la Santa Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, cioè la Chiesa di Dio. Bossuet lo affermò con parole magnifiche: “La missione della Chiesa è il contenimento dei poteri della Terra”.

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Queste idee costituiscono capisaldi della dottrina della TFP. Noi siamo a favore della gerarchia sociale e politica. Siamo a favore dell’esaltazione del potere civile in quanto derivante da Dio. Tuttavia, affermiamo che, per quanto grande, il potere civile ha un limite. E questo limite è indicato precisamente dalla severità del potere ecclesiastico.

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Sant’Ambrogio, rappresentato con la frusta con la quale fustigava l’eresia (Carlo di Braccesco – 1495)

Come tutto questo è diverso dal parroco intimorito che trema dinanzi a un potente del luogo!

Come ci piacerebbe, invece, vedere proprio il contrario: la forza dell’ortodossia, rappresentata dal clero, che fa indietreggiare, con sguardo pastorale e terribile, un potente eterodosso, oppure un plutocrate altezzoso: “Riccone, tieniti i tuoi soldi! Noi non ne abbiamo bisogno. Sono per la tua perdizione! Gettali pure nella fogna, perché davanti alla morale non valgono niente. Su questo punto della tua condotta prevale tale principio, su quell’altro si impone tale regola! E anche se noi dovessimo cadere nell’estrema povertà, nell’estrema persecuzione, Dio schernirà la tua ricchezza e la tua arroganza. Forse resteremo poveri e isolati, ma sarà nell’adempimento del nostro dovere!”

Vedere la ricchezza umiliata, la forza materiale umiliata, vedere persino il talento umiliato quando si scaglia contro la legge di Dio, ecco il fondamento di ogni grandezza umana! Ecco il ruolo del clero in una società ben costituita.

Considero importante mettere in risalto tutto questo, perché non è proprio dell’uomo, caduto nel peccato originale, essere talmente esaltato da non avere nessun freno.

I poteri superiori, però, non vanno limitati dagli inferiori, bensì da quelli superiori. E questi, a loro volta, vanno limitati dalla Chiesa. Così si stabilisce l’equilibrio e si capisce la profonda armonia dell’ordine che noi propugniamo.

L’esempio di Sant’Ambrogio, dunque,contiene per noi un insegnamento profondo, mostrando l’armonia delle nostre tesi e risultando in una convinzione più forte e più equilibrata.

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Le reliquie di Sant’Ambrogio (con il baculo), nell’omonima Basilica, a Milano

(*) Dal sito Circolo Plinio Corrêa de Oliveira – Sicilia.

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