Plinio Corrêa de Oliveira

 

Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana

 

 

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Marzorati Editore, 1993

ISBN 88-280-0129-1

Per richieste dell'opera in formato cartaceo: www.atfp.it


APPENDICE II

C - La Rivoluzione francese: modello emblematico di repubblica rivoluzionaria

 

La presa del castello delle Tuilleries

 

Abbiamo parlato della mentalità monarchica. In opposizione ad essa, si può concepire una mentalità repubblicana e persino una mentalità repubblicana rivoluzionaria, cioè la mentalità nata da un movimento rivoluzionario in favore della repubblica, come ad esempio la Rivoluzione francese.

Per capire bene cosa sia questa mentalità repubblicana rivoluzionaria, bisogna distinguerla da quella del repubblicano che non ce l'ha; ossia da quello che, come abbiamo visto, accetta la forma di governo repubblicana per il suo Paese per forza delle circostanze, ma che ha una mentalità monarchica.

È necessario dunque considerare cosa sia la Rivoluzione (1) e come essa si differenzi dalla repubblica, prendendo questo termine nel suo concetto tomista, freddamente especulativamente inteso, come una certa forma legittima di governo.

Questa distinzione era così chiara al tempo della Rivoluzione francese che molti fra coloro che - membri della famosa Guardia Svizzera - morirono ai piedi del trono lottando eroicamente per la monarchia francese, erano cittadini di repubbliche: le repubbliche elvetiche. Essi non ritenevano di essere in contraddizione con la loro preferenza per la forma di governo repubblicana nel loro Paese, quando morivano per il trono francese. Né il Re di Francia riteneva di compromettere la solidità del suo trono nell'assumere fra le sue guardie più fedeli quelli che, per il loro Paese, volevano la Repubblica.

Più avanti considereremo il rapporto esistente fra la Rivoluzione e la forma di governo da essa generata, cioè la repubblica rivoluzionaria; la quale non va confusa con la repubblica non rivoluzionaria, una forma di governo legittima, descritta nei documenti pontifici e nei testi di san Tommaso.

Vedremo inoltre come può l'opinione pubblica essere portata ad accettare questa repubblica rivoluzionaria, mediante l'azione degli pseudo-moderati favorevoli alla Rivoluzione. Per illustrare questa tesi abbiamo scelto un esempio storico emblematico: la Rivoluzione francese.

 

1. La Rivoluzione nei suoi elementi essenziali 

a) Impulso al servizio di un’ideologia 

Nella Rivoluzione bisogna distinguere inizialmente due elementi.

Essa è un'ideologia; quest'ideologia ha al suo servizio un impulso. Sia nella sua ideologia che nel suo impulso, la Rivoluzione è radicale e totalitaria.

In quanto ideologia, questo totalitarismo radicale consiste nel portare alle ultime conseguenze tutti i princìpi costitutivi della sua dottrina.

In quanto impulso, esso tende invariabilmente a realizzare i princìpi rivoluzionari in fatti, costumi, istituzioni, nei quali i rispettivi elementi ideologici vengono applicati integralmente alla realtà concreta.

Il termine finale dell'impulso rivoluzionario può essere definito con queste parole: ottenere tutto, ora e per sempre.

Il fatto che uno degli elementi essenziali della Rivoluzione sia un impulso, non vuol dire che essa vada intesa come qualcosa di impulsivo nel senso volgare del termine, ossia come qualcosa di irriflesso mosso da impazienza e intemperanza.

Anzi, il rivoluzionario modello sa di incontrare frequenti ostacoli che non possono essere rimossi con mere azioni di forza. Sa che deve molte volte temporeggiare, essere flessibile, indietreggiare e perfino fare concessioni, sotto pena di subire da parte dell'avversario sconfitte umilianti e altamente nocive. Ma ciò non impedisce che tutte le retromarce vengano fatte per evitare mali maggiori. Non appena le circostanze lo permettano, il rivoluzionario riprenderà ostinatamente la sua marcia in avanti, il più celermente possibile, anche se con tutta la lentezza necessaria (2).

Il totalitarismo e il radicalismo della Rivoluzione si mostrano pure nel fatto che essa tende ad applicare i suoi princìpi in tutti i campi dell'essere e dell'agire degli uomini e delle società. Ciò appare evidente ogni volta che analizziamo le trasformazioni subite dal mondo negli ultimi cento anni.

Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Vediamo questo trinomio trasformare gradualmente i singoli, le famiglie, le nazioni. Non c'è quasi nessun campo in cui, in un modo o nell'altro, non si trovino qui o là i segni dei passi vittoriosi dell'uno o dell'altro principio del noto trinomio. Pur considerando come regole i princìpi di prudenza sopraenunciati, in genere la marcia rivoluzionaria ha rappresentato un avanzamento, per così dire quasi invariabile.

Consideriamo ad esempio le trasformazioni della famiglia negli ultimi cento anni. L'autorità dei genitori subisce un continuo declino: uguaglianza. Il vincolo che unisce i coniugi va assottigliandosi sempre di più: libertà.

Si consideri pure l'ambiente delle scuole dell'insegnamento primario, secondario e universitario. Le formule di rispetto dovute al professore da parte degli allievi si sono ridotte sempre di più: uguaglianza. Gli stessi professori tendono a porsi il più possibile al livello degli alunni: uguaglianza, fratellanza.

Analoghe osservazioni andrebbero fatte nei più diversi campi: nei rapporti fra governanti e governati, fra padroni ed operai, o anche fra membri della gerarchia ecclesiastica e fedeli. Non finiremmo mai se tentassimo di presentare qui un elenco, almeno approssimativo, di tutte le trasformazioni realizzate nel mondo in forza del trinomio rivoluzionario.

 

b) Un altro elemento della Rivoluzione: il suo carattere di moltitudine 

È la moltitudine, sì, la moltitudine innumerevole di quelli che - portati ora dalla convinzione, ora dal mimetismo, ora dal timore di subire le critiche con cui verrebbero mitragliati dagli slogan implacabili del brusio rivoluzionario - promuovono o più semplicemente tollerano l'impunita e dominante offensiva della propaganda rivoluzionaria, verbale o scritta.

Se la rivoluzione fosse semplicemente un'ideologia che ha al suo servizio l'impulso, le mancherebbe importanza storica. È il carattere di moltitudine il fattore più importante del suo successo. 

 

2. L’opinione dei cattolici sulla Rivoluzione francese: dissensi 

Tutto ciò spiega perché, per la grande maggioranza delle persone, la Rivoluzione francese sia apparsa, quasi fin dal suo inizio, soprattutto come una moltitudine psico-drogata dal trinomio rivoluzionario e ubriacata dall'entusiasmo impulsivo da esso scatenato. Una moltitudine che, sotto l'influsso di questa ubriachezza, voleva arrivare il più presto possibile alle ultime conseguenze (e cioè a quelle più violente, più dispotiche, più sanguinarie) del trinomio, e quindi voleva e perseguiva il crollo di tutto quanto significasse Fede, autorità, gerarchia, disuguaglianza politica, sociale o economica.

Così, la Rivoluzione francese, negli ultimi eccessi della sua fase più cruenta – dopo aver rotto le immagini e gli altari, chiuso le chiese, perseguitato i ministri di Dio, detronizzato e decapitato il Re e la Regina, dichiarato abolita la nobiltà sottoponendone innumerevoli membri alla pena capitale, raggiunta la sua meta di impiantare un mondo nuovo in 'tutto, ora e per sempre', era sul punto di realizzare ciò che in modo molto caratteristico aveva descritto uno dei suoi più rilevanti precursori, Diderot: “Intrecciando con le mani le budella dell'ultimo prete, ne faranno un cappio per l'ultimo dei Re” (3).

 

a) Diversi modi in cui i cattolici possono considerare la Rivoluzione francese 

Di fronte a una tale pluralità di aspetti del fenomeno rivoluzionario - del caos rivoluzionario - è comprensibile che, per molti, la prima visione della Rivoluzione francese, cioè quella globale, salti agli occhi più del suo aspetto in certo qual modo benigno ed equo del trinomio; o anche di quello sovversivo, sanguinario e fanatico che si può intravedere nelle ambiguità dello stesso trinomio.

Non stupisce dunque che un gran numero di cattolici di fronte a questo quadro si domandi che pensare della Rivoluzione francese, in quanto cattolici.

Alcuni, distinguendo fra la dottrina rivoluzionaria - espressa nell'ambiguo trinomio e i fatti ai quali essa diede origine, tendevano ad accettare come vera soltanto l'interpretazione benevola che se ne poteva dare. Un tale atteggiamento li rendeva simpatizzanti della Rivoluzione francese, pur criticando in modo netto, ma debole, i crimini da essa commessi.

Altri la consideravano soprattutto come la causa nefanda delle crudeltà e delle ingiustizie che abbiamo elencato, dando al trinomio rivoluzionario un'interpretazione altamente sfavorevole alla quale peraltro si presta, e la denunciavano come il frutto criminale di una congiura satanica, ordita e messa in moto per modellare gli individui, le nazioni e la stessa civiltà cristiana, che fino a poco prima li governava, secondo lo spirito e la massima del primo rivoluzionario che aveva osato gridare nelle immensità celesti il suo “non serviam” (4).

Secondo questi studiosi della Rivoluzione francese, l'unica risposta del cattolico a tale ribellione era proclamare il grido di fedeltà degli Angeli di luce, seguaci di san Michele: “Quis ut Deus?”. E, analogamente a quanto costoro avevano fatto in Cielo, fare un “proelium magnum” sulla terra, dissolvendo gli antri tenebrosi nei quali la Rivoluzione viene ordita infliggendo le più severe pene ai suoi responsabili, spezzandole falangi dei cospiratori, eliminando le pseudo-benemerite “conquiste”, rierigendo gli altari, riaprendo i templi, rintronizzando le immagini sacre, ristabilendo il culto, restaurando il trono, la nobiltà e tutte le forme di gerarchia e di autorità; infine, riallacciando il filo degli avvenimenti storici che l'ignominia rivoluzionaria aveva interrotto e turpemente deviato dal loro corso.

 

b) La Rivoluzione francese vista da Pio VI 

Si consideri l'analisi di soprannaturale e profetica grandezza che della Rivoluzione francese fece Pio VI nell'allocuzione pronunciata a proposito della decapitazione di Luigi XVI:

“Il re cristianissimo, Luigi XVI, è stato condannato alla pena capitale da un'empia congiura, e questo giudizio è stato eseguito.

“Vi ricorderemo in poche parole le disposizioni e le motivazioni di questa sentenza. La Convenzione Nazionale non aveva né il diritto né l'autorità di pronunciarla. Infatti, dopo aver abrogato la monarchia, che è la miglior forma di governo, aveva trasferito tutto il pubblico potere al popolo. (...)

“La parte più feroce di questo popolo, non soddisfatta di aver degradato la maestà del suo Re e decisa a strappargli la vita, volle che fosse giudicato dai quei suoi stessi accusatori, che si erano apertamente proclamati come i suoi nemici più implacabili. (...)

“Celebrando la caduta dell'altare e del trono come trionfo di Voltaire, si esaltano la fama e la gloria di tutti gli scrittori empi come, un tempo, si faceva con quelle di generali di un esercito vittorioso. Dopo aver così trascinato, con ogni tipo di artifici, una grandissima parte del popolo nel loro partito, per attrarlo meglio ancora con la loro ricchezza e con le loro promesse, o piuttosto per farne il loro giocattolo in tutte le province della Francia, i faziosi si sono serviti del termine specioso di libertà, ne hanno inalberato i trofei e hanno invitato la massa a raccogliersi sotto le sue bandiere, che hanno spiegato da tutte le parti.

“In realtà si tratta di quella libertà filosofica, che tende a corrompere gli spiriti, a depravare i costumi, a rovesciare tutte le leggi e tutte le istituzioni trasmesse. (...)

“Dopo questa serie ininterrotta di empietà cominciate in Francia, chi ha ancora bisogno della dimostrazione che le trame originarie di questi complotti, che oggi scuotono e agitano tutta l'Europa, devono essere imputate all'odio verso la religione? Nessuno può ugualmente negare che la stessa causa abbia prodotto la morte funesta di Luigi XVI. (...)

“Francia! Francia! Tu che i nostri predecessori chiamavano 'lo specchio di tutta la Cristianità e l'inalterabile sostegno della fede; tu, che per lo zelo per il Credo cristiano e per la pietà filiale verso la Sede Apostolica, non segui le altre nazioni, ma le precedi tutte', come ci sei oggi avversa! Da quale spirito di ostilità sembri animata contro la vera religione! (...)

“Ancora una volta, Francia! Tu stessa prima esigevi un Re cattolico. Tu dicevi che le leggi fondamentali del regno non permettevano assolutamente di riconoscere un Re che non fosse cattolico. Ed ecco che ora l'avevi, questo Re cattolico, e proprio perché era cattolico lo hai assassinato!” (5).

Il fenomeno rivoluzionario è qui visto nel suo insieme: l'ideologia, l'impulso, le moltitudini innumerevoli che riempivano strade e piazze, i cospiratori empi ed occulti, le mete radicali ed ultime che attirarono i rivoluzionari dal suo inizio alla fine, e che in questa fine terribile lasciarono intravedere, dietro le formulazioni iniziali a volte melliflue, le intenzioni ultime verso le quali, sempre meno velatamente, la Rivoluzione marciava globalmente.

 

c) Connivenze dei “moderati” con la radicalità della Rivoluzione 

Questo modo di vedere la rivoluzione non nega che si possa fare nel fenomeno rivoluzionario la distinzione tra questa o quella delle sue sfumature.

Così, non è possibile identificare i “feuillants” (“foglianti”) dei primordi della Rivoluzione - monarchia liberali che, se paragonati ai paladini senza riserve dell'Ancien Régime, facevano in un certo modo la figura di rivoluzionari - con i girondini. Infatti, questi ultimi propugnavano per lo più una repubblica nemica del clero e della nobiltà, ma favorevole a conservare un regime socio-economico liberale che risparmiasse dal tifone la libera iniziativa, la proprietà privata, etc. La posizione girondina aveva tutte le carte per apparire radicalmente rivoluzionaria, non soltanto ai controrivoluzionari dichiarati (emigrati, chouans ed altri guerriglieri della monarchia) ma anche ai “feuillants”, e tuttavia risvegliava l'ira degli ultraintransigenti della “Montagna”, i quali non solo propugnavano l'abolizione della monarchia, la persecuzione radicale e cruenta del clero e della nobiltà, ma molte volte guardavano con occhio minaccioso le fortune preminenti della classe borghese.

Considerando da un estremo all'altro questa successione di sfumature, dai “feuillants” fino ai membri del Comité de Salut Publique con le orde dei loro ammiratori, si nota che ogni sfaccettatura o tappa della marcia rivoluzionaria sembra accentuatamente di sinistra in rapporto a quella precedente, e ultraconservatrice se paragonata alla sfaccettatura o tappa successiva. Si giunge così all'ultimo respiro della Rivoluzione, esalato quando già era moribonda nel 1795, cioè alla rivoluzione comunista di Babeuf, alla cui sinistra non può concepirsi altro che il caos e il vuoto, e alla cui destra un babuvista immaginava di vedere tutto quanto l'aveva preceduto.

Il metodo di considerare la Rivoluzione distinguendovi diverse sfaccettature presuppone, implicitamente o esplicitamente, che questa distinzione sia valida nella valutazione del fenomeno rivoluzionario solo se consideriamo che, nella mente persino dei suoi più blandi paladini, sebbene esistessero reali propositi di moderazione, esistevano però anche contraddittoriamente inspiegabili indulgenze e talvolta nette simpatie verso i crimini e i criminali della Rivoluzione.

Questa simultanea presenza di tendenze alla moderazione e di connivenza rivoluzionarie nella mentalità dei “moderati” e lungo le diverse tappe della Rivoluzione, portò uno dei più focosi apologeti del fenomeno rivoluzionario - Clemenceau - ad eludere le accuse di contraddizione ad essa rivolta, affermando tassativamente che “la Révolution est un bloc”, (6) nel quale le crepe e le contraddizioni non sono che apparenze.

Ossia, la Rivoluzione - frutto di una miscela di tendenze, dottrine e programmi - non può essere lodata né censurata identificandola con una sola delle sue sfaccettature o tappe, ma deve essere considerata nel suo aspetto così evidente di miscela.

L’espressione di Clemenecau può apparire attraente a molti animi, ma costituisce una descrizione della realtà storica ancora insufficiente.

Infatti, in quest'apparente miscela, spicca un principio ordinatore di capitale importanza: dai primordi fino quasi a Babeuf, ogni tappa della Rivoluzione mira a distruggere qualcosa e, allo stesso tempo, a conservare qualcosa del vecchio edificio socio-politico-economico precedente alla riunione degli Stati Generali; ma con la riserva che, in ogni tappa, il fermento distruttore agisce con più efficacia, più sicurezza in se stesso e più impeto di vittoria, che non la tendenza conservatrice. In realtà, questa si presenta quasi sempre intimorita, insicura, minimalista in ciò che vuole conservare e benvolentieri cedevole in ciò che accetta di immolare.

In altri termini, dall'inizio alla fine, uno stesso fermento agisce in ognuna di queste tappe - di queste sfumature - facendone una pietra miliare transitoria verso la capitolazione globale. Di conseguenza, la rivoluzione era già tutta intera nella sua sorgente, come l'albero è tutto intero nel suo seme.

Fu appunto questo il fermento colto con lucidità dall'indimenticabile Pontefice Pio VI, prigioniero e poi martire, nel 1799, del furore rivoluzionario.

Duecento anni dopo la Rivoluzione francese, le indagini effettuate dalla televisione per sapere che pensano i francesi di oggi della colpevolezza del Re e della Regina (7), portano ad ammettere che è ancora come “un bloc”, alla Clemenceau, che molti dei nostri coetanei - persino tra i non francesi - vedono la Rivoluzione.

L'esecuzione della coppia reale (1793), considerata in se stessa, presumibilmente sarebbe disapprovata da molti di coloro che, ancor oggi, si esprimono a favore. Tuttavia, questi regicidi l'avallano perché ritengono di vedere in essa - considerato l'esuberante complesso di aspetti contraddittori del turbine rivoluzionario - l'unico mezzo per salvare la Rivoluzione, le sue “conquiste”, i suoi “atti di giustizia”, le pazze speranze che suscitava: insomma, tutto quel “blocco” confuso ed effervescente di ideologie, aspirazioni, risentimenti ed ambizioni che costituivano in un certo qual modo l'anima della Rivoluzione.

Costoro prolungano fino ai nostri giorni quella sorta di “famiglia di anime” che vede come un alto di giustizia l'esecuzione del debole e bonario Re Luigi XVI e della Regina Maria Antonietta. Certamente, tra questi adepti contemporanei del regicidio, sorprendentemente numerosi, ve ne sono molti che non si identificherebbero pienamente con nessuna delle sfaccettature della Rivoluzione francese, giacché rappresentano una tappa ancora più avanzata del processo rivoluzionario, diversa ma non per questo priva di nesso con le sfaccettature che si manifestarono duecento anni fa: gli ecologisti intransigenti, ad esempio, ai quali sembra ingiusto uccidere un uccello o un pesce, ma che non manifestano indignazione - ma anzi, formale approvazione -                                per il fatto che Luigi XVI e la sua graziosa moglie, Maria Antonietta, siano stati condannati a morte. Su quest'ultima - austriaca di nascita ma talmente impregnata dello spirito francese e della sua cultura, da essere ammirata ancor oggi da innumerevoli francesi e non francesi come personificazione delle qualità che, in grado insuperabile, caratterizzano la Francia - ha scritto acutamente il ben noto storico inglese Edmund Burke:

“Sono già 16 o 17 anni che vidi la Regina di Francia, a Versailles, quando era ancora Delfina; senza dubbio non era mai sceso su questo mondo - che ella sembrava appena sfiorare - una visione più dilettevole. La vidi appunto spuntare all'orizzonte mentre abbelliva e animava l'elevato ambiente in cui si cominciava a muovere, scintillando come la stella mattutina, piena di vita, splendore e gioia.

“Ah! Che rivoluzione! Dovrei essere senza cuore per contemplare senza emozione una tale ascesa e una tale caduta! Non avrei potuto neanche immaginare – quando ella ispirava non solo venerazione ma anche amore entusiastico, distaccato e pieno di rispetto - che un giorno ella si sarebbe vista costretta a portare, nascosto nel suo seno, il pungente antidoto all'obbrobrio. Non avrei potuto immaginare che sarei vissuto per vedere simili disgrazie abbattersi su di lei in una nazione di uomini valorosi, in una nazione di uomini onesti e cavalieri. Avrei supposto che diecimila spade sarebbero state sguainate per vendicare persino solo uno sguardo che la minacciasse d'insulto. Eppure l'era della Cavalleria è passata. Le è succeduta quella dei solisti, economisti e calcolatori; la gloria dell'Europa è finita per sempre. Mai, mai più contempleremo quella generosa lealtà verso la categoria e il sesso fragile, quella signorile sottomissione, quella dignitosa ubbidienza, quella subordinazione del cuore che manteneva vivo, persino nella servitù, lo spirito di una libertà elevata. L'inestimabile grazia, la pronta difesa delle nazioni, la cura dei sentimenti virili e delle imprese eroiche sono scomparse. È scomparsa quella sensibilità di princìpi, quella castità dell'onore, che faceva sentire una macchia come una ferita, che ispirava il coraggio e allo stesso tempo mitigava la ferocia, che nobilitava tutto quanto toccava, e sotto la quale lo stesso vizio, perdendo tutto il suo aspetto grossolano, perdeva la metà della sua malvagità” (8).

Segnalare e descrivere i nessi che, al di sopra dei secoli, legano certe forme di ecologismo alla gironda, alla montagna, o persino al babuvismo, costituirebbe còmpito troppo ampio e sottile per trovar posto in quest'opera. Abbiamo menzionato, soltanto di passaggio, che alcuni nostri contemporanei hanno considerata la posizione estrema dell'ecologismo, e di altre correnti affini, come una metamorfosi del comunismo apparentemente “suicidatosi” nella defunta URSS e nei Paesi satelliti. 

 

 “Sarebbe per Noi, giunti al tramonto della vita, un dolore ed un'amarezza troppo grandi il vedere svanire, senza dare i loro frutti, tutte le Nostre intenzioni benevole riguardanti la nazione francese e il suo governo, ai quali Noi abbiamo dato reiterate testimonianze non solo delle Nostre più delicate attenzioni, ma anche del Nostro efficace e particolare affetto". (lettera di Leone XIII al presidente francese Loubet, giugno 1900) 

3. Interviene Leone XIII 

Tutte queste considerazioni, così famigliari a molti lettori contemporanei, lo sono molto meno ad altri per via dell'effetto lenitivo che l'oblio provocato dal tempo esercita su persone, dottrine, correnti di pensiero, dispute e sulla storia di tutto questo.

Era necessario ricordare tutto ciò per comprendere la situazione davanti alla quale si trovò il Papa Leone XIII, quando avviò la politica detta del “ralliement” e tentò di unire attorno a sé i cattolici divisi dal modo di valutare il fenomeno rivoluzionario.

A partire dal 1870, la Francia viveva sotto il regime repubblicano. In quell'anno iniziò la sua terza Repubblica, la quale si consolidò nel 1873 col rifiuto dell'Assemblea Nazionale di restaurare il trono col pretendente legittimo, il conte di Chambord, discendente di Re Carlo X. Il regime repubblicano allora instaurato, a partire delle dimissioni del generale Mac Mahon del 1879, si mostrò sempre più chiaramente ispirato ai princìpi rivoluzionari ed anticattolici che avevano dato origine alla Rivoluzione francese.

Sarebbe possibile per la Santa Sede accordarsi con questo regime? 0 ciò equivarrebbe a fare un concordato con Satana? A questa domanda scottante Leone XIII dovette rispondere quando ascese al trono pontificio nel 1878.

Fra i cattolici c'erano allora polemiche senza fine che non si limitavano ad un carattere meramente dottrinale o storico.

Il punto di divergenza era la valutazione della Rivoluzione francese, specialmente nella sua politica religiosa.

C'erano cattolici inflessibili nel difendere l'integrità dei diritti secolarmente riconosciuti alla Chiesa dalla tradizione nata con san Remigio e Clodoveo.

Oltre ai cattolici inamovibili nelle loro posizioni religiose e controrivoluzionarie, c'erano quelli che aderivano moderatamente alla politica antireligiosa della Rivoluzione, ritenendo che tale posizione esprimesse il vero pensiero dei rivoluzionari “feuillants” o di parte dei girondini.

Altri ancora si sentivano più vicini alla politica antireligiosa più audace delle correnti di sinistra della Gironda. Tuttavia, quasi nessun cattolico approvò gli estremi antireligiosi della Montagna.

In molti casi, a questo quadro di tendenze riguardante la politica religiosa, corrispondeva un analogo quadro nel campo strettamente politico.

All'estrema destra, si trovavano i cattolici favorevoli alla monarchia dell'Ancien Régime e alla sua restaurazione nella persona del pretendente legittimista, il conte di Chambord. In un certo modo essi erano quelli ai quali si riferiva Talleyrand quando diceva, con intento manifestamente caricaturale, che, messi davanti alla Rivoluzione, rifiutavano tutto perché “non avevano imparato nulla, niente avevano dimenticato” (9).

Da parte loro, i “moderati” della Rivoluzione in materia religiosa lo erano molto spesso in materia politica. Il loro monarchismo era consono al loro cattolicesimo: aspiravano al mantenimento di una religione esangue, nonché di una monarchia sbiadita.

C'erano anche gli adepti di una forma di governo chiaramente repubblicana, affine ad uno Stato interamente o quasi separato dalla Chiesa. Si trattava di repubblicani che si autoritenevano moderati, e che quindi si differenziavano dai repubblicani, meno numerosi, figli della Montagna.

Questi montagnardi del secolo XIX erano in genere di un ateismo becero, nonché di un repubblicanesimo radicale. Ancora qui dobbiamo citare Clemenceau: “Dall'epoca della Rivoluzione siamo in rivolta contro l'autorità divina ed umana, con la quale, con un solo colpo, abbiamo regolato un terribile conto, il 21 gennaio del 1793 [decapitazione di Luigi XVI] (10).

La Repubblica francese, che Leone XIII si trovò davanti, viveva dell'appoggio politico di questi partigiani di un radicale laicismo di Stato, e pure dei cattolici timorosi che ritenevano una buona politica quella di fare “bonne mine” alla Repubblica, e perfino a qualche esigenza del laicismo di Stato, purché questo, in cambio, non mantenesse la sua crescente ostilità alla Chiesa.

Oblio del passato, perfino della monarchia cattolica nata dalla consacrazione di Clodoveo, irritata indifferenza verso il destino della nobiltà, accoglienza rassegnata e sorridente delle conquiste laiche già consolidate: questo era il prezzo da pagare - immaginavano questi cattolici detti centristi - per ottenere dalla Repubblica le condizioni minime per un'esistenza ben garantita e anche un futuro spensierato per una Chiesa agilmente flessibile nella conduzione della sua politica.

Leone XIII, salendo al trono pontificio, decise di far propria questa politica. Per questo motivo, oltre al prezzo già menzionato, egli sacrificò l'appoggio che avrebbe potuto ottenere da parte dei cattolici che, sul piano politico, si mantenevano fedeli alla monarchia legittimista del conte di Chambord e, sul piano religioso, reclamavano per la Chiesa tutti o quasi tutti i diritti che la Rivoluzione le aveva strappato. Questi cattolici nostalgici della strategia politica di Pio IX erano i più ferventi, i più entusiasti del Papato, i più intransigenti nella difesa dei dogmi.

La politica di Leone XIII comportava proprio di scoraggiare, e quindi di far declinare, l'appoggio che riceveva da queste falangi di valorosi, i quali avevano sofferto persecuzioni e discriminazioni di ogni sorta da parte della Rivoluzione, col cuore lieto di potersi sacrificare per l'altare e il trono, per Dio e il Re.

In compenso, Leone XIII guadagnava il plauso non soltanto di molti cattolici noncuranti dell'interazione fra i grandi problemi temporali e quelli spirituali, ma anche dei cattolici accomodanti.

Valeva la pena questo scambio? È ciò che molti si domandavano.

Leone XIII decise che sì. Col brindisi di Algeri (11) e l'Enciclica “Au milieu des sollicitudes”, si orientò chiaramente e direttamente verso l'accomodamento che -come sottolineò con cura - non comportava la rinuncia ad alcun principio di fede o di morale insegnato da lui o dai suoi predecessori.

Com'era prevedibile, le discussioni tra cattolici crebbero in frequenza ed intensità, appunto sulla liceità o meno, per un cattolico, nell'essere repubblicano.

Leone XIII definì la dottrina della Chiesa su questa materia. Ma il vociare delle discussioni velò a molti polemisti la chiarezza di visione e ne derivarono tra i cattolici diverse posizioni errate, alcune delle quali poi ratificate dallo stesso Leone XIII e da san Pio X.

Nel risolvere in tesi la questione della posizione dei cattolici davanti alle forme di governo, Leone XIII non arrivò a tratteggiare con tutta la chiarezza possibile la distinzione fra la Repubblica rivoluzionaria, nata dalla Rivoluzione francese, e la forma di governo repubblicana, considerata esclusivamente nei suoi princìpi astratti e che   potrebbe essere legittima secondo le circostanze inerenti ad ogni Paese.

Da questa posizione, che forse corrispose a una preoccupazione di Leone XIII di essere circospetto, derivò in gran parte la confusione intorno all'argomento (12).

Tralasciamo di parlare qui dei fatti successivi, per non dilungare troppo la materia.

Così, diventarono meno numerosi di quanto sarebbe stato desiderabile, nel panorama politico francese, i cattolici che, in conseguenza della dottrina e dello spirito della Chiesa, preferivano come ideale la forma di governo monarchica, temperata da una certa partecipazione dell'aristocrazia e del popolo al potere pubblico, benché risoluti ad accettare senza scrupoli di coscienza la forma di governo repubblicana qualora questa si dimostrasse necessaria al bene comune.

Al contrario, diventarono più numerosi i cattolici seguaci della forma di governo repubblicana, mossi non tanto dalla convinzione della necessità della Repubblica per la Francia, quanto dal falso principio secondo cui la suprema regola di giustizia nei rapporti umani sarebbe l'uguaglianza. Ne derivava per loro che solo la democrazia, e pertanto la Repubblica tout-court, realizzava fra gli uomini la giustizia perfetta, nella cornice di una perfetta morale: appunto l'errore condannato da san Pio X nella Lettera Apostolica Notre charge apostolique (13).

Questo risultato non si verificò soltanto in Francia ma in tutto l'occidente.

Queste discussioni si ripercossero in tutto il mondo e, naturalmente, causarono divisioni e confusioni tra i cattolici nei più svariati Paesi; divisioni che ancora in parte sussistono.

Sussiste ancora la grande illusione del radicalismo ugualitario, implacabilmente antimonarchico e antiaristocratico.

L'intenzione che ha animato l'elaborazione di quest'appendice è stata quella di contribuire affinché, alla luce dei documenti pontifici, riguadagnasse terreno la chiarezza di visione e l'unione degli animi su questo argomento. “Dilatentur spatia veritatis” [si dilatino gli spazi della verità], devono desiderare tutti i cuori sinceramente cattolici. Di conseguenza, “dilatentur spatia caritatis” [si dilatino gli spazi della carità]. 


Note:

1) Sul senso della parola Rivoluzione, Cfr. Capitolo V, 3 b (nota).

2) Una distinzione sintetica ed espressiva di questa flessibilità tattica della Rivoluzione può essere trovata nelle seguenti parole di Mao Tse-Tung: "Se il nemico attacca, io indietreggio. Se il nemico indietreggia, io lo perseguo. Se il nemico si ferma, io lo tormento. Se il nemico si riaggrega, io mi disperdo" (Cfr. Pierre Darcourt, Mao le maquisard, in "Miroir de l'Histoire", n 267, marzo 1972, p. 98).

3) D. Diderot, Les Euleuthéromanes, Cfr. Hippolyte Taine, Les origines de la France contemporaine, Robert Laffont, Paris 1986, p. 165.

4) Sul carattere satanico della Rivoluzione francese, dice il cardinale Billot: "Il carattere essenzialmente antireligioso, l'empietà di principio del liberalismo rimarrà palese agli occhi di chiunque rifletta sul fatto che tale liberalismo fu propriamente il principio della Grande Rivoluzione, della quale si disse con ragione che presentava così espressamente, così visibilmente, un carattere satanico che la contraddistingue fin dall'inizio da tutto quanto si era visto nei tempi passati.

"'La Rivoluzione francese non somiglia in nulla a quanto è stato visto nei tempi passati. Essa è satanica nella sua essenza' (De Maistre, Du Pape, Discours preliminaire).

"'C'è nella Rivoluzione francese un carattere satanico che la contraddistingue da tutto ciò che è stato visto prima e forse da tutto ciò che si vedrà' (Idem, Considérations sur la France, c. V)" (card. Louis Billot, Les principes de '89 et leurs conséquences, Téqui, Paris, p. 30).

5)  Pii VI P. M., Acta, Typis S. Congreg. de Propaganda Fide, Romae 1871, vol. II, pp. 17, 25-26, 29-30, 33.

6) Cfr. François Furet, Mona Ozouf, Dictionnaire critique de la Révolution française, Flammarion, Paris 1988, p. 980.

7) Il 12 dicembre 1988, la televisione francese rappresentò il processo di Luigi XVI, dando ai telespettatori l'occasione di pronunciare la sentenza. Più di centomila persone si espressero così: 55,5% per l'assoluzione, 17,5% per l'esilio, 27% per la condanna a morte.

Qualche tempo dopo, il 3 gennaio dell'anno successivo, un altro programma televisivo affrontò il processo di Maria Antonietta, in presenza di specialisti e storici fra i più competenti. Questa volta non è stato chiesto, ai telespettatori, di pronunciarsi in favore o contro la condanna a morte, ma semplicemente sulla colpevolezza o meno della regina. Il 75% degli spettatori si pronunciarono per l'innocenza, e 25% per la colpevolezza.

8) E. Burke, Reflections on the Revolution in France, in Two classics of the French Revolution, Anchor Books, Doubleday (New York) 1989, p. 89.

9) J. Orieux, Talleyrand ou la Sphinx incompris, Flammarion, Paris 1970, p. 638.

10) Apud card. Louis Billot, Les principes de '89 et leurs conséquences, Téqui, Paris, p. 33.

11) Nel novembre 1890, la flotta di guerra francese nel Mediterraneo approdò nel porto di Algeri. Il card. Lavigerie - arcivescovo di quella città e una delle principali figure su cui contava Leone XIII per realizzare la sua politica di "ralliement" in Francia - offri agli ufficiali un banchetto nella sua residenza.

L'ammiraglio Duperré, comandante della flotta, fu ricevuto al suono degli accordi dell'inno rivoluzionario "la Marsigliese", eseguito dagli allievi dei famosi "Pères Blancs" (religiosi che si dedicavano all'apostolato in Algeria), inno ancora non riconosciuto dal fior fiore del monarchismo francese come inno nazionale.

Al dessert, il cardinale si levò in piedi, imitato dai suoi commensali. Il brindisi che allora fece consistette nella lettura di un testo preparato anteriormente. Dopo aver salutato i commensali, passò a fare un'esortazione in favore dell'accettazione della forma repubblicana di governo, asserendo che "quando la volontà di un popolo si è affermata chiaramente, e una forma di governo niente ha in sé di contrario - come è stato ultimamente proclamato da Leone XIII - ai soli principi che possono far vivere le nazioni cristiane e civilizzate", questa forma di governo merita una "adesione senza riserve".

Quando il cardinale finì la lettura del brindisi, gli ufficiali suoi commensali, nella grande maggioranza monarchici, rimasero stupefatti e in silenzio, senza applaudire. Tutti si sedettero di nuovo. Il cardinale si volse allora all'ammiraglio e gli chiese: "Ammiraglio, non risponde al cardinale?" L'ammiraglio Duperré, un vecchio bonapartista, disse soltanto: "Bevo alla salute di sua eminenza il cardinale e del clero di Algeria".

Quest'atteggiamento del cardinale Lavigerie, nonostante godesse dell'appoggio e dell'approvazione di Leone XIII, ebbe ripercussioni molto sfavorevoli negli ambienti monarchici e cattolici della Francia, e persino nello stesso episcopato francese, dal quale il cardinale non ricevette l'appoggio desiderato. (Cfr. Adrien Dansette, Histoire religieuse de la France contemporaine sous la troisième République, Flammarion, Paris 1951, pp.129-131).

12) Nei suoi diversi insegnamenti sulle forme di governo, Leone XIII non si astenne dal considerare le circostanze concrete in cui si trovava la Francia del suo tempo. Al contrario, in modo più o meno tassativo, egli manifestò la sua persuasione che la Repubblica era una forma adatta a promuovere il bene comune della Francia di allora.

Inoltre, il Pontefice rilevò di essere convinto che la maggior parte dei leader repubblicani osteggiassero la Chiesa, non proprio per avversione contro di essa, ma soltanto per un sentimento di antipatia verso gli attacchi fatti contro la Repubblica da parte dei numerosi cattolici dediti alla causa monarchica. In questa prospettiva, pensava che, purché il Romano Pontefice, seguito da fedeli sempre più numerosi, si riconciliasse seriamente con la Repubblica, i suoi leader avrebbero avviato da parte loro una politica di riconciliazione con la Chiesa.

I fatti non giustificarono le speranze di Leone XIII, come egli stesso riconobbe amaramente in una lettera al presidente francese Emile Loubet, del giugno 1900:

"Abbiamo voluto, signor presidente, aprire la nostra anima, confidando che - con la nobiltà del vostro carattere, l'elevatezza delle vostre vedute, e il desiderio sincero di pacificazione religiosa di cui sappiamo che siete animato - prenderete a cuore di impiegare l'influenza che vi dà la vostra elevata posizione per allontanare qualsiasi causa di nuove perturbazioni religiose. Sarebbe per Noi, giunti al tramonto della vita, un dolore ed un'amarezza troppo grandi il vedere svanire, senza dare i loro frutti, tutte le Nostre intenzioni benevole riguardanti la nazione francese e il suo governo, ai quali Noi abbiamo dato reiterate testimonianze non solo delle Nostre più delicate attenzioni, ma anche del Nostro efficace e particolare affetto" (apud Emmanuel Barbier, Histoire du Catholicisme liberal et du catholicisme social en France, L'Imprimerie Yves Cadoret, Bordeaux, 1924, t. II, p. 531).

Ugualmente, nella lettera scritta al cardinale François Richard, arcivescovo di Parigi, il 23 dicembre 1900, riguardante la persecuzione fatta alle congregazioni religiose dal governo di quel Paese, il Pontefice manifestò la

sua delusione per il fallimento della politica di "ralliement":

"Dall'inizio del nostro Pontificato, non abbiamo risparmiato nessuno sforzo per realizzare in Francia quest'opera di pacificazione che le avrebbe assicurato vantaggi incalcolabili, non soltanto nell'àmbito religioso, ma anche in quello civile e politico.

"Non abbiamo indietreggiato davanti alla difficoltà, non abbiamo cessato di dare alla Francia prove particolari di deferenza, di sollecitudine e di amore, contando sempre che essa avrebbe risposto come conviene ad una nazione grande e generosa.

"Proveremmo un dolore estremo se, giunti al tramonto della nostra vita, ci trovassimo disillusi in quelle speranze, frustrati nelle nostre paterne sollecitudini e condannati a vedere nel Paese che amiamo le passioni e i partiti lottare con più accanimento, senza poter misurare fino a dove arriveranno i suoi eccessi, né poter scongiurare le sventure che abbiamo fatto tutto per evitare e delle quali anticipatamente ci esimiamo nella responsabilità" (Actes de Léon XIII, Maison de la Bonne Presse, Paris, t. VI, pp. 190-191).

Così, numerosi cattolici continuarono a vedere con apprensione la politica seguita dal famoso Pontefice in Francia, giudicando che la maggioranza dei repubblicani fossero imbevuti degli errori dottrinali che avevano ereditato dall'Illuminismo del secolo XVIII, cioè l'ugualitarismo redicale, e la fobia, di matrice deista e atea, verso la Chiesa cattolica.

Non sarebbero state le démarches in senso pacificatore di Leone XIII verso la Repubblica a smobilitare la grande maggioranza dei repubblicani nei confronti della Chiesa.

Infatti, l'offensiva repubblicana contro di essa continuò accesamente sotto il regno di san Pio X.

Con l'esplosione della prima Guerra Mondiale, i francesi di tutte le correnti religiose e politiche stabilirono la "Union Sacrée" contro l'invasore. Ne derivò una tregua nei conflitti politico-religiosi, la quale si prolungò, in un certo modo, dopo la vittoria degli eserciti alleati.

13) Cfr. la citazione in quest'appendice, A 4.