Plinio Corrêa de Oliveira
Pater, non mea voluntas, sed tua fiat
Catolicismo, Brasile, Aprile 1954 |
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«Detto questo, Gesù andò con i suoi discepoli oltre il torrente Cedron, dov’era un orto, in cui entrò con i suoi» (Gv. 18,1) Gesù abbandona Gerusalemme. Non era questa una partenza come le altre, alla quale sarebbe seguito presto un ritorno, ma una vera e profonda separazione. Il Messia amava la Città Santa, le sue mura ricoperte di gloria, il Tempio del Dio vivente che in essa si ergeva, il popolo eletto che l’abitava; per questo le aveva predicato il Vangelo con particolare affetto e ne aveva combattuto i vizi con vigore particolarmente ardente. Ma era stato respinto: per questo abbandonava la città maledetta. Era notte, Gerusalemme risplendeva con tutte le sue luci. C’erano calore e sazietà nelle sue case ed animazione per le strade. Una gran spensieratezza regnava sulla città allegra e tranquilla. Di Gesù, con tutta la Sua bellezza, grazia, sapienza, bontà, poco le importava. Nel momento in cui Egli lasciava la città, nessuno lo sentì, nessuno lo notò, salvo forse qualcuno che lo guardo con indifferenza. I Giudei non sentivano bisogno di Gesù; per guidare le loro anime preferivano Anna, Caifa e i loro consimili; per occultare i loro interessi nazionali bastava loro Erode. Tolleravano Pilato con rassegnato malumore. Sotto la guida di tali pastori spirituali e temporali, potevano mangiare, bere e divertirsi a volontà, mettendosi poi a posto la coscienza con una preghiera e un sacrificio nel Tempio. Così tutti si adagiavano nella mollezza e nel conformismo. Gesù era venuto a perturbare questa pace. Aveva parlato di morte, di giudizio, di Cielo e di inferno, senza comprendere che quel secolo non sopportava questa predicazione, e che il primo dovere di un rabbi sarebbe consistito nell’adattarsi alle esigenze dell’epoca. Conoscitore dei Testi Sacri, abile dialettico, eccezionale nell’impressionare le folle e nell’attrarre le persone con i suoi colloqui intimamente persuasivi, sembrava impegnato nel mostrare l’irrimediabile incompatibilità tra la religione, da una parte, e la vita sregolata, spensierata e senza freni dall’altra. Aveva spezzato le due volte dell’arco, e prima o poi avrebbe provocato rovine; ma ciò non Lo preoccupava. Accentuando i pericolosi effetti delle Sue parole, faceva miracoli. Appoggiandosi al prestigio che essi Gli conferivano, turbava gli animi, insegnando che il cammino che conduce al Cielo è stretto, inculcando la necessità della purezza dell’onestà, della rettitudine per poter entrare in Cielo. I predicatori della pietà non si dolevano del conflitto dell’anima e dei drammi di coscienza che venivano a scatenarsi? I predicatori dell’umiltà non riconoscevano la necessità di conformarsi con l’esempio prudente che il principe dei sacerdoti dava loro? Ad un certo momento, invero, era sembrato che stesse per vincere. Allora il Sinedrio aveva accelerato i tempi. Aprendo generosamente le sue casse, inviò emissari ad infiltrarsi nel popolo perché insinuassero pregiudizi contro quell’insolente. Erano abili, questi emissari, e seppero toccare la corda psicologicamente giusta. Le possibilità di vittoria del rabbi erano così finite; Gerusalemme non sarebbe stata sua. La sua morte era stata decretata, il popolo l’avrebbe applaudita. Questa morte era l’ultimo, insignificante corollario: un piccolo episodio di polizia. Sì, il caso di Gesù di Nazareth era restato concluso. Il popolo avrebbe potuto nuovamente abbandonarsi al piacere, alla ricchezza, alle solenni cerimonie del Tempio. Tutto sarebbe tornato alla normalità. Sì, una grande preoccupazione veniva a dissolversi nell’aria e quella notte, sazia e tranquilla. Era finita la predicazione di Gesù, ed Egli abbandonava la città, poiché lì non c’era più niente da fare. Non era compatibile con la Sua perfezione conformarsi a quella tranquillità tiepida e sonnolenta in cui si adagiavano quelle conoscenze che aveva cercato di risvegliare. Il Suo solo anelito era salire: sì salire per esprimere un isolamento completo, un distacco assoluto, un’incompatibilità senza infingimenti. E salì. Le luci rimassero dietro; Egli penetrava nelle tenebre della notte. Le folle restarono indietro. Egli conduceva seco appena un pugno di seguaci. Lasciò dietro tutto ciò che era potere, ricchezza, gloria umana. Andava verso un luogo solitario, spoglio, seguito solo da gente sconosciuta, senza distinzione sociale, senza titoli culturali, senza nulla. Abbandonate le gioie della vita, Gesù andava incontro alla desolazione degli abbandonati, alle angustie terribili di coloro che sperano la morte. «Disse ai suoi discepoli: fermatevi qui mentre io vado a pregare» (Mc., 14,32) La sofferenza di Gesù era maggiore di quanto poteva sembrare a prima vista. Gli Apostoli Lo seguivano, è vero, ma con l’anima piena di attaccamento a tutto quanto abbandonavano durante quella terribile separazione, e piena di timori di fronte a tutto ciò che la prospettiva del futuro lasciava intravedere. Le loro anime non erano nella condizione di pregare: era l’inizio della defezione, poiché colui che non prega sta scivolando verso l’abisso. Pregare, non “potevano”; tornare a Gesù, non lo volevano; restarono lì, fermi. Acconsentirono che il Maestro, andando più avanti, restasse solo. Gli Apostoli si consideravano di certo degli eroi, per il fatto di restare lì fermi. Tanto erano sensibili alle loro sofferenza, che non pensavano a quella del Signore. Si lasciarono pertanto opprimere dal dolore. Essendosi fermate lì, poco dopo dormivano, e più tardi erano in fuga! Non pregare, pensare poco alla Passione di Cristo e molto alle proprie sofferenze, tutto ciò conduce a fermarsi nel cammino e a lasciar andare avanti Gesù. Poi viene il sopore, il sonno la timidezza; e quindi la fuga. Terribile lezione per quelli che cominciavano il lungo itinerario nel cammino di perfezione! Gesù aveva loro detto: “Pregate per non essere indotti in tentazione” (Lc. 2,40). Ma non pregarono e soccombettero. «Poi dopo aver preso con sé Pietro Ei due figli di Zebedeo cominciò a rattristarsi e ad angosciarsi» (Mt. 26,37) Un’elezione. Alcuni erano meno ottenebrati dal dolore dell’abbandono, dell’insuccesso, della separazione totale dal mondo. Li addolora va più vivamente la sofferenza di Gesù. Meritarono di essere chiamati in disparte e di essere presenti all’inizio delle sofferenze infinitamente preziose del Redentore. Quanti ricevono la stessa chiamata! La Grazia li attrae verso una maggiore pietà, verso un’ortodossia più profonda, una comprensione più precisa della situazione terribile chiesa nella nostra epoca. Per corrispondere a questa grazia, è necessario avere il coraggio di partecipare alla tristezza di Nostro Signore, e per far questo è necessario avere un’anima generosa, forte e seria. Come si respinge questa grazie? Rifiutando le tristezze di Nostro Signore vivendo per delle sciocchezze, idolatrando lo sport, facendo della radio e della televisione il centro della vita, facendo dei passatempi l’unico tema di conversazione, rifuggendo dal meditare i doveri terribile imposti dalla nostra epoca, la gravità dei problemi che essa suscita, per impantanarsi nelle miserie della vita quotidiana. Costoro non ricevono l’adorabile confidenza dei dolori del Cuore di Gesù. Sono rospi che vivono con il ventre attaccato alla terra, non certo aquile che fendono col loro volo possente i cieli più alti. «Allora confidò ad essi: l’anima mia è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me» (Mt. 26,38) “La mia anima è triste”, dice il Salvatore, e non “io sono triste”. Voleva significare che il Suo tormento era tutto spirituale; quello fisico non era ancora iniziato. Si insiste molto, riguardo alla Passione, sui dolori corporali, ed è buona cosa. Ma la devozione al Sacro Cuore di Gesù incita a meditare sui dolori dell’anima di Cristo, il che è ottimo. Le sofferenze dell’anima, infatti, sono più profonde, più tristi e più nobili di quelle del corpo; esse si oppongono maggiormente a quei difetti dell’anima che offendono Dio. Ma perché soffriva l’anima di Cristo? Perché noi stessi dobbiamo soffrire? Perché vediamo violata la volontà del Padre Eterno, e Gesù Nostro Signore respinto, negato, odiato. Pensare a questo, misurarne l’ampiezza e la gravità, e soffrire in noi stessi i dolori spirituali di Nostro Signore. Gesù Cristo e la Chiesa formano un’unica cosa. Ogni volta che vediamo un messaggio immorale, un giudizio errato, un’istituzione o una legge opposta alla dottrina della Chiesa, dobbiamo addolorarci. Altrimenti, se per questo non abbiamo zelo né forza, siamo buoni soltanto a rimanere indietro e, nell’ora del pericolo, a fuggire. “In tristezza mortale”: vale a dire in suprema tristezza. La tristezza di vedere la Legge violata, la Chiesa perseguitata, la gloria di Dio negata, deve produrre in noi una tristezza suprema, e non soltanto una di quelle tristezze emotive e passeggere tipiche delle anime frivole e impressionabili, paragonabili ai fuochi fatui degli stagni e dei cimiteri: una misera tristezza superficiale, non radicata in serie risoluzioni, zelo profondo, rinuncia effettiva a tutto al fine di vivere solo combattendo. Un’anima in stato di tristezza mortale non si consola con rivisti, vestiti, banchetti, viaggi, con le stupidaggini oneste… o disoneste! Essa vivrà nel dolore mortali per l’oltraggiata gloria di Dio, trovando sollievo solo e soltanto nella vita interiore e nell’apostolato. “Rimanete qui”, vale a dire non mescolatevi né con i figli perfidi di Gerusalemme, né con i tiepidi che dormono qui vicino. “Vegliate con me”. Sì, partecipate della mia solitudine, della mia sconfitta del mio dolore. Fatte di questo la vostra gloria, la vostra gioia, la vostra ricchezza. «Quindi si allontanò un poco e si prostrò faccia a terra» (Mt. 26,39) Perché allontanarsi un poco, se desiderava che i tre Apostoli rimanessero con Lui? Restare con Nostro Signore vuol dire stargli vicino in spirito, essere solidali con Lui. Rimane con Lui quello che aderisce alla Chiesa con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutto l’intelletto. Rimane con Nostro Signore colui che nel momento dell’agonia pensa a Lui e non a sé stesso. Rimane con Nostro Signore colui che pensa solamente a Lui e non al mondo, al proprio io e ai propri piaceri. Nostro Signore si allontanò solo “un poco”, “a un tiro di sasso”, come dice San Luca (22,41). Perché mai allontanarsi? E perché solo di un poco? Nostro Signore voleva essere visto, per conservare nella fedeltà i tre Apostoli prescelti; voleva consolarli e consolare se stesso sentendoseli vicini. Doveva però allontanarsi, essendo giunto a un momento di particolare gravità. Stava per parlare con Dio, e Dio e stava per parlargli. Come nella liturgia giudaica il Sacerdote penetrava da solo nel Santo dei Santi, così anche Nostro Signore volle fare da solo questo primo passo della sua Passione. Possediamo noi pure nell’anima questa Santa solitudine in cui sono presenti solo Dio e noi stessi, in cui non penetra alcun confidente, alcun amico, alcuna realtà terrena, in cui tolleriamo soltanto lo sguardo del nostro Direttore? Oppure queste nostre anime sono senza riservatezza né nobiltà, aperte a tutti i venti, a tutti gli sguardi, a tutti i passaggi, quasi fosse una volgare piazza pubblica? “Si prostrò con la faccia a terra”. Umiliazione completa, rinuncia totale: è la vittima pronta per l’olocausto. Quale esempio di preparazione per l’orazione! Quando parliamo con Dio, noi ci possiamo prima a terra? Vale a dire: ci disponiamo in umiltà, pronti a obbedire, decisi a rinunciare a tutto, riconoscendo il nostro nulla? Oppure mantenendo delle riserve, dei tentennamenti, dei punti doloranti al cui riguardo Dio non può chiederci un sacrificio? Quando ascoltiamo la Chiesa, ci prostriamo a terra rinunciando a tutte le nostre opinioni, ad ogni nostro volere, al fine di obbedire? Nella comunione con coloro che ci edificano spingendoci a far quadrato attorno alla Chiesa e al Papa, ci portiamo a terra accettandone l’influenza, oppure eleviamo barriere, solleviamo riserve? «E pregava dicendo: Padre mio, se è possibile si allontani da me questo calice; Tuttavia sia fatta non la mia volontà ma la tua» (Mt. 26,39). Stare prostrato a terra, al tempo stesso pregando! Con il corpo poggiato sul suolo, su ciò che vi è di più basso, ma elevandosi con l’anima fino al più alto dei cieli, fino al trono di Dio! In questo consiste l’invincibilità del vero cattolico. Al culmine dell’afflizione, dell’umiliazione, dell’abbandono, egli stringere tuttavia in mano l’arma che vince ogni nemico. Quanto è vero questo, nelle lotte della vita interiore! Privi di risorse per trovare la via d’uscita o per resistere, noi preghiamo… e finiamo col vincere! E come ciò è vero anche nell’apostolato! Ci spaventa l’impeto dell’ondata paganizzante? Noi escogiteremmo subito dei compromessi nei quali sacrificare prima ciò che è accidentale in quanto accidentale, poi l’essenziale secondario in quanto secondario, e infine ciò che è primario… per evitare un male maggiore! Se comprendessimo la potenza della preghiera, se sapessimo postrarci faccia a terra e pregare, conosceremmo meglio l’efficacia delle nostre armi soprannaturali, nonché il significato, il valore, la fecondità dell’intransigenza cristiana. Il Divino Redentore ha cui sofferto per i pessimisti, per gli scoraggiati che non comprendono la forza trionfante della Chiesa. “Si allontani da me questo calice”. Quale calice? Era la sofferenza atroce, opprimente, ingiusta, che si avvicinava e che Gesù prevedeva. In questo momento il Divino Maestro patì per tutti quelli che peccano di ottimismo, per coloro che, posti di fronte alla prospettiva della lotta, della angustia, del dolore, praticano la politica dello struzzo e si illudono che tutto vada molto bene. Prevedere il dolore e prepararsi adesso con coraggio è alta, altissima virtù: sia se si tratti della nostra vita personale, sia se si tratti della causa della Santa Chiesa. In questo momento in cui Essa è così attaccata, non sia abbia la stoltezza di dire che tutto va bene. Si riconosca la gravità dell’ora, si guardi virilmente e cristianamente alle minacce del futuro con animo risoluto e fiducioso, pronti ad agire mediante la lotta, la preghiera e l’accettazione piena del sacrificio. Questo fu l’esempio che ci diede e il Divino Maestro. Si isolò da tutti per misurare, faccia a faccia con Dio, tutta la vastità dell’oceano di dolori che stava per sommergerlo, e per prendere una posizione di fronte a questa prospettiva. Quale posizione? “Se è possibile si allontani da me questo calice; tuttavia sia fatta la tua volontà non la mia”. Qui troviamo due suppliche. Nella prima, l’Uomo Dio chiede che il dolore gli sia risparmiato “se possibile”. Nella seconda, l’accetta nel caso che non sia possibile evitarlo. Santa disposizione d’animo, priva di teatralità e di vanagloria! La sofferenza produce per natura timore nell’uomo, e Nostro Signore, che non soltanto vero Dio, ma anche vero Uomo, temeva il dolore. Supplicò quindi che, se possibile, gli fosse risparmiato. Evitare il dolore è lecito, saggio, santo. Ma non evitarlo a qualunque prezzo solo “se è possibile”. “Se è possibile”. Che cosa significa? Davanti a quella supplica umile di un Giusto tormentato dalla previsione del dolore, se la volontà divina potesse transigere, accantonando la sofferenza, che così sia ma sia. Ma se, al contrario evitare quel dolore significasse modificare i piani della Provvidenza, a detrimento della gloria di Dio e del bene della Chiesa, che stava per essere fondata, e delle anime, in tal caso era migliore sopportarlo tutto. “Se è possibile”… sublime condizione che il mondo non riconosce! Proprio per questo il mondo intero è in crisi, in catalessi, in agonia. Beni materiali, ricchezza, fama, salute, avvenenza, tutto ciò è buono nella misura in cui lo subordiniamo alla volontà di Dio. Ma se è necessario rinunciare a tutto poiché in forza di tale o tal altra circostanza interiore o esteriore non è possibile possedere queste cose senza dispiacere a Dio, allora si compia la piena rinuncia. Se tutti gli uomini pensassero o sentissero così il mondo sarebbe ben diverso! È per mancanza di questa condizione, nella quale è contenuto ogni ordine ed ogni bene, che la civiltà va morendo. “Sia fatta non la mia volontà ma la tua”. Sono parole sulle quali si basa tutta la vita della Chiesa, delle singole anime e dei popoli. Parole sante, dolci, dure e terribili che l’uomo d’oggi non vuole intendere. Definizione perfetta dell’obbedienza, di quell’obbedienza che il mondo, dal Lutero in poi, odia sempre di più. “Sì, si faccia la volontà di Dio e non la mia; osserverò i Comandamenti e non seguirò i miei capricci; penserò con il Papa anche quando mi sembrasse preferibile un’altra dottrina. Obbedirò a tutti coloro che esercitano su me una legittima autorità, poiché rappresentano Dio, e farò la loro volontà, e non la mia. Gesù mio, come si spiega di fronte a questo che si sostenga tuttavia che Tu fosti un rivoluzionario, venuto a portare nel mondo la Rivoluzione? Dopo di ciò, silenzio. Gli evangeli non ci riferiscono ciò che fu risposto, né quello che Gesù disse a questa risposta. Perché mai dirlo? E con quali parole? Probabilmente una sola persona al mondo vide tutto, seppe tutto ed adorò tutto: Maria Santissima, senza dubbio presente in spirito a tutto questo, e singolarmente in tutto. L’argomento è peraltro troppo elevato per permetterci di interpretare questo silenzio che neppure i Vangeli vollero rompere. Chiediamo alla Mediatrice di tutte le grazie che ci introduca al raccoglimento della vita interiore e nei misteri ineffabili di questo momento di silenzio. «Gli apparve quindi un angelo del Cielo per confortarlo. Ma essendo egli in angoscia, pregava ancora più intensamente, e il suo sudore diventò gocce di sangue che cadevano per terra» (Lc 22, 43-44) Comincio così la Passione. Gesù aveva previsto il dolore e la morte, e li aveva accettati. La semplice previsione dell’inevitabile Lo poneva di fronte a un cumulo opprimente di tormenti. Ma “un angelo lo confortava”. Sì, la sua umile supplica è restata udita. Dio gli dava forza per vincere il tormento invincibile, sopportare il dolore insopportabile, accettare con coerenza la giustizia inaccettabile. Se comprendessimo questo! I comandamenti ci sembrano troppo pesanti, in noi ulula il turbine degli appetiti disordinati e delle tentazioni diaboliche. Se comprendessimo che questa è l’ora di Dio, se pregassimo più intensamente, se accettassimo la vista dell’angelo che ci conforta! Sì, perché anche da noi l’angelo giunge sempre, dal momento in cui iniziamo a pregare: ora è un movimento interiore della Grazia, ora è un buon libro, ora un amico che ci dà un buon esempio, un buon consiglio. Ma noi non preghiamo! E il risultato è la caduta. Durante l’agonia, l’angelo giunse come frutto della preghiera. Ricevuta la sua visita, Nostro Signore continuò a pregare, sì pregare più insistentemente è il gran secreto della vittoria. Chi prega si salva chi non prega si danna, diceva Santo Alfonso de Liguori, e come aveva ragione! Gesù sudò sangue. Il sangue Redentore scorse per l’oppressione della sofferenza spirituale. Possiamo dire che era sangue del Suo Cuore. Quale magnifico soggetto di meditazione per i devoti del Sacro Cuore! Sudare sangue è dolore estremo. È il momento più acuto della pressione che la sofferenza e spirituale esercita sul corpo. Si potrebbe dire che il Nostro Signore stava sopportando il massimo della sofferenza possibile. Senza la sofferenza, neppure il primo passo della Via Crucis poteva compiersi. Come spiegare questa resistenza incomparabile? Il suo martirio cominciava dal punto in cui quello degli altri giunge al culmine. Il fatto è che “un angelo del Cielo lo confortava”, che Egli “pregava ancor più intensamente”. Oh forza del soprannaturale! E noi osiamo dire che per mancanza di forza capitoliamo nella vita interiore o nella lotta dell’apostolato! Tre volte il Signore pronunciò il suo Fiat; e dopo ognuna di queste volte si volse ai suoi discepoli. La prima volta “li trovò addormentati” e raccomandò loro “vigilate e pregate per non cadere in tentazione lo spirito infatti è pronto ma la carne è debole” (Mt. 26,41). Ma essi non diedero retta. Perché? Perché avevano sonno; un sonno prodotto da due eccessi opposti: da una parte la disperazione dall’altra la presunzione. La disperazione: di fronte all’umana sconfitta di Gesù, i loro sogni di grandezza terrena erano svaniti. Che restava loro? Quelle tenebre, quella solitudine, quel suolo aspro e volgare in cui si trovavano. La carriera rovinata: sventura delle sventure! Sotto il peso di tale dolore, l’unica cosa da fare era dormire. La presunzione: nonostante questo, si ritenevano forti. Avevano tanto lottato; sarebbe stato di certo offensivo dubitare della loro forza. Sicuri della loro resistenza, disinteressati dalla perseveranza, ammazzavano il tempo dormendo. Un sonno grossolano, oltretutto: il Signore soffriva, e quelli dormivano! Che importava loro del Signore? Non Gli concedevano forse un favore enorme già col solo rimanere con Lui in quella solitudine? Che mai altro poteva pretendere? Che si pregasse fuori dalle ore prestabilite? No. Vegliasse Lui se gli andava; gli Apostoli, da parte loro, andavano a dormire. Quanto più si dorme tanto più il sonno si fa pesante. Tale è il processo di sviluppo della tiepidezza spirituale. La seconda volta, Gesù “li trovò addormentati per poiché i loro occhi erano pesanti” (Mt. 26,43). Sonno della mediocrità, del rilassamento della mollezza. Seguivano essi il Maestro? Sì e no. Sì, perché in fin dei conti restavano lì con Lui; no, perché ormai non lo ascoltavano più. Lui parlava, ma essi non ho gli obbedivano. Lui soffriva, ed essi dormivano. Era l’inizio della defezione. Come possono avvenire cadute così disastrose? Dormire quando Gesù parla significa a mio riguardo essere disattento, scontento, tiepido, allorché mi parlano i ministri della Santa Chiesa, quelli che devono guidarmi nella via della santità, quelli che, per il loro esempio, per la loro ortodossia e generosità, incarnano la fame e la sete di virtù. Se cado in questo sonno, che rimedio ho se non quello di svegliarmi, vigilando e pregando per non cadere in tentazione? E se non lo faccio, che cosa ne deriva? La rovina della vita spirituale, della mia vocazione. La terza volta le parole di Nostro Signore suonano di rimprovero: “Dormite ormai e riposatevi: l’ora è vicina il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori… Alzatevi, andiamo: già si avvicina colui che mi tradisce” (Mt. 26,45-46). Il tempo era passato. Neppure la supplica affettuosa e piena di dolore li aveva scossi: “Non avete dunque potuto vegliare con me nemmeno un’ora” (Mc. 16, 37). Poco dopo, “mentre ancora parlava, improvvisamente giunse Giuda uno dei Dodici, seguito da una folla armata di spade e di bastoni” (Mc. 14,43); e un po’ più tardi, i Suoi discepoli, “abbandonatolo fuggirono tutti” (Mc. 14,50). Fuggirono, sì perché erano stati tiepidi, avevano dormito, non avevano pregato. Se io non voglio fuggire, Signore, debbo essere forte, non posso dormire, debbo pregare. Concedetemi, o Signore, questa grazia della perseveranza in tutte le circostanze, in tutti i pericoli, in tutte le amarezze; questa grazia della fedeltà in tutti gli abbandoni, in tutte le situazioni di bisogno, in tutte le sconfitte; questa grazia della fermezza anche quando tutti si lasciano andare oppressi dal sonno o travolti dalla concupiscenza dei beni terreni. Altrimenti, Dio mio, riprendetevi la mia vita, perché una sola cosa non voglio: fuggire. Per l’intercessione onnipotente della Vostra Madre Santissima, è questa grazia della perseveranza che Vi chiedo, Signore Gesù! [Tratto da Lepanto, Roma, anno II numero 11 febbraio 1983] |