, febbraio 2009, N° 41, pag. 25-28
Intervista a Giovanni Cantoni su Plinio Corrêa de Oliveira
«Aveva la cattedrale di Chartres nel cuore»
a cura di Juan Miguel Montes
Da sinistra a destra: il Prof. Plinio, Giovanni Cantoni e Dom Bertrand de Orléans e Bragança. Nella foto, l'intervistato in visita al leader cattolico e intellettuale brasiliano, nella sede del Consiglio Nazionale della TFP, a São Paulo (1972).
Il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira è stato ampiamente diffuso in Italia da Giovanni Cantoni, fondatore e reggente nazionale di Alleanza Cattolica. In questa conversazione, egli ha voluto sottolinearci l’importanza per il pensiero sociale cattolico di due delle opere dell’intellettuale brasiliano: Rivoluzione e Contro-Rivoluzione e Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII.
Lei è la persona che più di qualsiasi altra ha diffuso in Italia l’opera principale del pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Perché le ha attribuito tanta importanza?
Ho dimestichezza con Rivoluzione e Contro-Rivoluzione da quando uscì o quasi. Precisamente dal 1960. L’opera è del 1959. D’allora, in conformità con il mio orientamento spirituale e intellettuale di riferimento, che è ignaziano, lo leggo almeno una volta all’anno, così come raccomandano ai gesuiti di fare con gli Esercizi di sant’Ignazio.
L’elemento intorno a cui ruota il libro è una tesi di tipo storiografico: è esistito un mondo che chiamiamo Cristianità, vulgo dicitur Medioevo, che certamente faceva riferimento ai princìpi cristiani. Non si trattava di un mondo perfetto. Dove esistono uomini, alcuni sono bravi e altri meno: questa è la condizione umana. Tuttavia era un mondo in cui il messaggio del cristianesimo aveva carattere egemonico. Il che non vuol dire dominio ferreo. Vuol dire punto di riferimento accettato dal consenso della gran parte degli allora viventi in una determinata area geografica.
Questo mondo ha patito un decadimento. E il ritmo di questo decadimento è catechisticamente ben illustrato appunto in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Ovvero l’itinerario che ci ha portato e ci porta da una Rivoluzione Culturale elitaria alla condizione in cui ci troviamo, attraverso la sua diffusione lenta, eliminando ogni ostacolo, prima religioso, poi politico, quindi socioeconomico.
In che condizione ci troviamo?
Nel contesto di una Rivoluzione Culturale che, da piccola rivoluzione elitaria in Italia, l’Umanesimo e il Rinascimento, ora si è socializzata, ha invaso tutto il corpo sociale. Dal 1968, a far data da questo anno emblematico, il nostro mondo ha cominciato a essere insofferente non solo ai grandi legami politici e sociali, ma a ogni e qualsiasi legame.
Risultato finale: si e strappato istericamente di dosso, e continua a farlo, ogni e qualsiasi collegamento e poi — credo che l’immagine sia del regnante Pontefice — ha scoperto che questi legami che viveva come fossero catene, erano cordoni ombelicali.
La condizione attuale è questa: un mondo ormai senza legami, anzi, con una grande paura di qualsiasi tipo di legame e, però, con una grande necessità e nostalgia di molti legami.
Questo itinerario è stato accompagnato da una resistenza e talora da una reazione. Alcune o molte persone, a seconda delle circostanze, hanno incominciato a rendersi conto che quelli che venivano strappati non erano catene ma cordoni ombelicali.
Ripeto, nel mondo della cristianità vi era qualcuno che si comportava anche peggio di noi, ma l’orizzonte della società era il cristianesimo. Ma in che differivano da noi? Gli uomini di quel mondo non avevano dubbi che comportarsi male non fosse né lodevole né edificante. Oggi il comportamento sconveniente tende a trasformarsi in un nuovo diritto; l’affermazione di san Paolo, «si vantano di quello di cui si dovrebbero vergognare», mi pare una didascalia perfetta della nostra condizione. Ben diversa dalla situazione dei penitenti che andavano a piedi in Terra Santa o a Compostela.
Nell’itinerario verso la presente condizione d’istituzionalizzazione del degrado, vi è stata una crescita di consapevolezza che qualcosa andava male, ora qua, ora là e talora ovunque. Nel ventaglio che parte da resistenze e reazioni a quanto non andava bene, si arriva a ciò che chiamiamo la Contro-Rivoluzione, fino alla nascita di una specie di «scienza» della Contro-Rivoluzione.
Questo doppio itinerario d’istituzionalizzazione del peggio da una parte e, dall’altra, di crescita di consapevolezza di tale istituzionalizzazione, ha aspetti di cui facciamo fatica a diventare sensibili a 360 gradi.
E una delle tesi contenute in Rivoluzione Contro-Rivoluzione è precisamente questa: guai a chi sa argomentare contro la Rivoluzione soltanto dal punto di vista politico. Non basta, non può bastare. Bisogna prendere coscienza di una condizione globale, che interessa tutta la nostra cultura. E la nostra cultura è una Weltanschauung, una visione circolare.
Papa Giovanni Paolo II ha dato una volta una definizione di cultura per cui essa non è una biblioteca, non è un museo, ma è l’insieme dei modi di affrontare tutti i problemi principali della vita da parte dell’uomo. Essa è — arriva a dire — persino il modo in cui ci si veste. Qualcosa a 360 gradi, dunque, che ci arricchisce oppure che c’inquina.
Lei ritiene che vi sia una filiera storica dei cultori di questa «scienza della Contro-Rivoluzione»? Quale importanza danno allo studio della società i «contro-rivoluzionari», come condizione di una sua restaurazione?
Personalmente mi metto sulla lunghezza d’onda di Plinio Corrêa de Oliveira, nato una generazione prima di me, così come il professore brasiliano è sulla lunghezza d’onda del pensatore svizzero Gonzague de Reynold, che egli stimava e che ritengo un altro dei miei maestri, nato 28 anni prima di lui.
Non perché sono io ma perché mi sono situato sulla stessa linea, mi sono chiesto cosa può essere insegnato dal loro itinerario in una prospettiva restauratrice? Come cambiare in meglio una realtà oggettivamente non solo diversa, il che di per sé non è una colpa, ma dannosa?
Vi è stata una stagione in cui si è pensato che lo strumento particolarmente felice per realizzare la restaurazione di quanto era valido prima dell’autunno del Medioevo fosse lo Stato. Ma lo Stato era diventato una «Chiesa» concorrente, non semplicemente il modo di organizzare la società, tale da far perdere alla società il suo primato.
Invece, la dottrina sociale della Chiesa non ci deve far venire in mente né un capo di Stato né un sindacalista, bensì tutta l’articolazione del corpo sociale. E non mi sto riferendo agli Stati totalitari, ma in genere a quelli moderni, che tendono a risolvere i problemi a prescindere della condizione del corpo sociale.
Lei usa l’espressione Magna Europa per riferirsi a una realtà che include gli elementi di civiltà cristiana nati fuori dall’Europa, nello sforzo di una restaurazione sociale cristiana. Mi sembra che in questa prospettiva lei presti particolare attenzione al pensiero e all’opera di Plinio Corrêa de Oliveira.
Prendiamo la battaglia della Vistola nel 1920, quando il piccolo esercito polacco allontanò per 25 anni dal cuore dell’Europa l’Armata Rossa. Che cosa abbiamo fatto noi europei negli anni che ci sono stati donati prima che l’Armata Rossa arrivasse nel cuore dell’Europa? Viene da piangere.
Il tema di una mia recente raccolta di scritti è questo: ai confini di una realtà si conservano più elementi di quanti non si conservino al centro. Quello che parte con una valigia di cartone e si porta dietro una immaginetta, un «santino», conserverà quella immaginetta con una cura straordinaria. Molto di più di quanto non siano conservati i monumenti veri a casa, dove impazza un'altra mentalità.
Allora, dalla periferia nasce qualcosa. E la consapevolezza dell’uomo di frontiera è di gran lunga superiore a quella dell’uomo del centro. Alla frontiera quel poco fruttifica, nel senso che verrà trattato con grande serietà.
Ebbene, una testimonianza straordinaria è proprio quella di Plinio Corrêa de Oliveira. Un signore che, da lontano, ha svolto un grande esame della situazione, anche attraverso elementi minuscoli.
Infatti non si poteva alzare al mattino e dire «adesso vado a vedere la cattedrale di Chartres»; sarebbe stato necessario prendere una nave, ma la cattedrale di Chartres l’aveva nel cuore e questa è la cosa importante.
Facilitato dal pathos der Distanz, dal «pathos della distanza», da lontano, egli ha apprezzato meglio un quadro di quanto si possa fare appoggiando la faccia sulla tela. Prendendo la distanza giusta quanto dipinto sulla tela gli è apparso un capolavoro, o almeno una testimonianza del bello, a cui noi abbiamo abbondantemente abdicato.
In cosa si può notare un particolare apporto alla visione cattolica sulla società e sullo Stato nel suo pensiero?
Vi è stata una stagione, grosso modo coincidente con la prima metà del secolo scorso, in cui il pensiero che ha animato anche un certo mondo cattolico, teneva conto della strumentazione teorica dello Stato di allora, al fine di riformare sostanzialmente la società. Questo sforzo si è rivelato inadeguato, perché lo Stato aveva patito modifiche molto consistenti. Cioè, l’idea della società rinnovata attraverso la strumentazione statuale moderna, centralistica, nazionalistica, e così via, poteva trovare simpatizzanti nelle file cattoliche, rivelare una mentalità golpistica, la versione sociale del «tutto e subito» individualistico.
Plinio Corrêa de Oliveira si è posto invece questo problema: «Come si fa a rimettere in ordine la vita di una società dopo quello che è successo per quattro o cinque secoli?».
Egli — che tuttavia apprezzava i buoni interventi dello Stato, perché lo Stato è comunque lo status societatis, lo «stato della società» — è consapevole che la società viene prima. Non è lo Stato che fa la società, è la società che fa, meglio: si dà lo Stato. Perciò la sua grande attenzione è sul corpo sociale, anche sulla gente comune, tutti gli uomini, uno dopo l’altro.
Nell’intervento scritto da lui inviato a Milano nel 1993 per la presentazione della sua opera Nobiltà ed élites tradizionali nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato e alla Nobiltà romana, egli ricorda che Papa Pio XII, parlando della nobiltà, afferma che essa ha bisogno di un consenso diffuso. Cioè, ciascuno nella società deve mettervi del suo. O si trasforma il corpo sociale o tutte le sovrastrutture — senza certo utilizzare questo termine in senso marxistico — non possono migliorarne la condizione.
Fra le guerre mondiali s’impose nel mondo europeo lo Stato autoritario. Non mi riferisco allo Stato totalitario, che ha come intenzione rifare l’uomo, creare l’«uomo nuovo», ma allo Stato che aveva come intenzione proteggere in qualche modo la società. Ma questa ipotesi esige che la società si rianimi. Altrimenti possiamo vestirla con tutti gli abiti che vogliamo e non sarà sufficiente.
Non è che mettendo sulla porta del sindacato la targa «corporazione» siamo tornati al Medioevo. Le vere corporazioni salgono, non scendono dall’alto, e devono prima esistere nel corpo sociale.
I termini vanno dunque intesi bene. Bisogna che il corpo sociale capisca e dia la propria disponibilità, il proprio consenso alla strutturazione dello Stato. La democrazia vi è stata anche in altre stagioni, non solamente da quando vige il principio «un uomo un voto». Giuseppe Toniolo diceva che era più democratico il regno di Luigi IX di quanto non lo fosse la democrazia del suo tempo. Che cosa voleva dire? Che vi era più consenso. E come si manifestava questo consenso? Nel fatto che la gente non si rivoltava sparando, anche quando ciascuno aveva il fucile in casa e non vi era l’esercito.
Serve consenso. Plinio Corrêa de Oliveira lo dice esplicitamente: se non cambia la gente non cambia il mondo. Se qualcuno vuole cambiare il gioco, deve cambiare prima il giocatore. In questo senso va l’appello a ciascuno di fare la sua parte, perché senza consenso non cambia niente.
La salvezza del mondo non consiste nel fatto che gli altri diventino come noi, ma nel fatto che ciascuno si riappropri, per così dire, della sua vocazione e della sua funzione.
L’aspetto più importante del suo ultimo libro in cui commenta i discorsi di Pio XII alla Nobiltà sarebbe allora un grande appello alle élite attuali a fare la loro parte?
A mio avviso l’opera è stata fraintesa. In essa si coglie qualche elemento di appello alla nobiltà esistente, a cui si rivolgeva papa Pio XII. Ma bisogna ricordare che questa nobiltà è il frutto del riconoscimento giuridico di un’aristocrazia. Se non esiste l’aristocrazia, non esiste neanche la nobiltà se non come club degli amici dei potenti. E l’aristocrazia, cioè, l’insieme delle persone migliori in tutti i settori dell’esistenza, non è necessariamente riconosciuta giuridicamente.
Il nostro diritto moderno prevede un diritto penale ma è scomparso ogni elemento premiale. Anche se ci sono brandelli di premialità, non sono costitutivi né fondativi. Un tempo lo Stato diceva «hai fatto bene e ti do un titolo», non solo da ostentare ma accompagnato da un corrispondente brandello di autorità da esercitare. Così la nobiltà era soltanto l’istituzionalizzazione dell’aristocrazia. E l’aristocrazia è il modo naturale della trasmissione della virtù nella storia. Il nipote passando davanti al quadro del nonno pensa: «Lui non era niente, diventò quello che è stato comportandosi in un determinato modo. Quindi, essere virtuosi è anche conveniente».
Questo è il messaggio dell’opera. Non una mera laudatio temporis acti, anche se si elogia una società che riconosceva i «notabili», quelli noti a tutti perché si comportavano bene ed erano riconosciuti come un vantaggio per il corpo sociale. Oggi è noto un serial killer ma non necessariamente chi si comporta bene reiteratamente.
Tuttavia il libro va oltre: è un testo sulla famiglia, che è il primo stato della società, ed è un testo sul corpo sociale. Perché lo Stato se non è lo status societatis non è niente. E l’opera afferma che vi sono aristocrazie in tutti i settori, non solo quella a ricaduta politica alla quale si pensa subito.
Io credo in buona coscienza che questa sia la sua lettura corretta. L’autore si è reso conto che non è l’organizzazione che salva la società, ma la salvezza della società dipende dal riacquisto di consapevolezza da parte di tutti e di ciascuno. E per che questa consapevolezza ci sia serve di lievito una minoranza, che dia l’esempio facendo bene la propria parte. In questo senso ogni famiglia, continuità nel tempo, è potenzialmente aristocratica.
Papa Benedetto XVI ha invitato il «cristianesimo moderno» a fare autocritica, perché si è creduto che tutto fosse esclusivamente costruito al fine della salvezza individuale. No, la buona strutturazione della società favorisce la socializzazione della santità. E ciò lo dice anche papa Pio XII, quando asserisce che dalla forma data alla società può dipendere la salvezza delle anime.
Per noi di Alleanza Cattolica questo non è un pensiero qualsiasi, è un vita che riflettiamo su di esso. Sant’Agostino dice magnificamente che quando hai posto gli elementi per la santificazione del tuo prossimo, hai posto gli elementi per la tua santificazione. Se hai tolto qualche elemento di oggettiva tentazione, se hai migliorato le condizioni storiche, sociali, economiche e culturali del tuo prossimo, lo hai aiutato a diventare santo e hai posto la caparra per la tua santificazione.