Cristianità, maggio 1982, Anno X – N. 85, pag. 10-11

 

L’utopia e il messaggio

Plinio Corrêa de Oliveira (*)

 

Circostanze diverse – e assolutamente involontarie – mi hanno impedito, fino a questo momento, di scrivere sulla visita di Giovanni Paolo II in Brasile. Mi metto a farlo oggi, sperando di concludere in un prossimo articolo.

Questa fatica mi è molto gradita. Vedo nella santa Chiesa l'anima della mia anima; e, per così dire, nella mia devozione al Papato l'anima della mia devozione alla Chiesa. Non ho bisogno di dire niente di più per esprimere il sentimento profondo con cui tratto l'argomento.

Schematizzando, la storia dei dodici giorni che Giovanni Paolo II ha passato in Brasile si divide in due parti: a) quanto vi ha detto e vi ha fatto; b) il modo in cui i brasiliani hanno accolto i suoi insegnamenti e i suoi atteggiamenti. Sarebbe naturale che cominciassi dal primo punto, ma le sue allocuzioni occupano un volume di 277 pagine, nella edizione brasiliana che ho fra mani. Inoltre, non mi accontenterò di questa edizione, e intendo studiare la materia proprio sul testo pubblicato da L'Osservatore Romano, organo ufficioso della Santa Sede. Ora, è facile fare il conto del tempo necessario per lo studio - parola per parola - di questi importanti documenti. Mentre sto trovando qua e là spazi per tale studio, non posso, però, prolungare ancora di più il mio silenzio sulle colonne ospitali della Folha de S. Paulo.

Comincio, dunque, dal secondo punto, cioè dalla reazione del popolo brasiliano.

Durante la permanenza di Giovanni Paolo II, il Brasile ha vissuto in uno stato di suspense. Alla televisione, alla radio e sulla stampa, per così dire, si è parlato soltanto di lui. Il pubblico ha assorbito avidamente tutte queste informazioni, e anche quando, impegnato nelle occupazioni quotidiane, il brasiliano non poteva pensare all'illustre visitatore, lo aveva però nel subconscio.

Terminata la visita, questo fenomeno è durato ancora per due o tre giorni.

Poi, gran parte del popolo è tornata completamente alle attività di ogni giorno, così piene di problemi, così cariche di grandi o di piccole minacce, così tirannicamente assorbenti. E una parte molto grande della opinione pubblica nazionale «ha staccato» da quei giorni. Per essa, la visita appartiene ormai al passato, in questi giorni difficili di esclusiva attenzione ai problemi immediati, nei quali conta solamente il futuro.

Ma questo, che è accaduto a una indubbia maggioranza, non coinvolge una minoranza molto notevole di brasiliani, che ha continuato a conservare nell'anima gli echi e i ricordi della visita pontificia. In questa fascia di nostalgici vi sono sfumature. Alcuni - la maggioranza all'interno di questa minoranza - sono stati segnati fino in fondo all'anima dalla presenza di Giovanni Paolo II. Certamente per il fatto di vedere in lui il vicario di Gesù Cristo, ma anche, e in modo molto considerevole, per il fatto di essere stati affascinati da alcuni caratteri personalissimi di Karol Wojtyla. La salute prorompente, l'attività straordinaria - e di così buon umore -, la sicurezza comunicativa, la propensione crepitante al dialogo e all'accordo, hanno dato a molti la impressione che il Pontefice abbia in mente una formula tutta sua per fare cessare il diluvio di preoccupazioni, di rischi e di tormenti che si abbattono sul Brasile e sul mondo. Insieme a questa formula, insinuata dal sorriso affabilmente ammiccante degli occhi e delle labbra, dal tratto disteso della fisionomia ottimistica, e dall'implicito invito rivolto a tutti a sperare e a essere felici, si delineava un metodo inconfondibilmente personale per la applicazione della formula. Doti di Karol Wojtyla, carismi di Giovanni Paolo II, sembravano intersecarsi per trasmettere, nello stesso tempo, la certezza, per così dire telepatica, del successo che otterrà.

E chi lo guardava, aveva la impressione di stare assaporando in anticipo questo successo che l'illustre visitatore «promette». La forza di persuasione che questo successo verrà, aveva più efficacia della sua parola orale oppure scritta. Questa tattica, soltanto un Wojtyla avrebbe le doti, per così dire transpsicologiche, per portarla a compimento. E senza lotte: opera di riconciliazione di tutti i diritti confusi e in conflitto, di tutti gli interessi esasperati e irriducibili, insomma, un dolce paradiso in terra.

Ora, questo messaggio è stato «captato» in profondità dalla popolazione brasiliana, la cui indole psicologica mi sembra fatta per questo. Al brasiliano piace maggiormente capire ascoltando che leggendo; e vedendo, ancora più che ascoltando: così intuitivi siamo.

Credo che il piacere di ricevere, in un contatto personale, questo messaggio ottimistico, spieghi, in larghissima misura, la gioia - che chiamerei frenetica, se in questo aggettivo non vi fosse qualcosa di peggiorativo - che ha preso molte persone semplicemente vedendo il Pontefice entrare, uscire, sorridere, ringraziare, o anche pregare.

Ho la impressione che, nella vasta minoranza, che vive ancora i giorni della visita, questa gioia, lungi dal morire lentamente, si stia sublimando.

Nel popolo più affettivo del mondo - infatti non siamo meno affettivi di quanto siamo intuitivi - vi sono persone che pensano di sentirsi entrare nel regno, nel millennio, nel paradiso terrestre recuperato. Non più incomprensioni, né conflitti di interesse, né lotte, né privazioni: il misterioso ma irresistibile know-how wojtyliano metterà fine a tutto questo assolutamente per sempre.

Il fatto più curioso è che il Pontefice non ha affermato niente di tutto questo, ma nell'anima dei suoi nostalgici esso sta diventando certezza.

Una certezza generosa, tonificante e pacificante, diranno molti. Utopia, temo, perché non vedo come giustificare, sulla base della dottrina cattolica, questa speranza che in alcuni mi sembra si stia formando.

Infatti, la Chiesa ci insegna che questa terra è un luogo di esilio, una valle di lacrime, un campo di battaglia, e non un luogo di delizie. Soprattutto, non esisterà mai questa perfetta e definitiva concordia tra gli uomini. Nostro Signore Gesù Cristo è stato il Principe della Pace. E, senza di lui, ogni pace non è altro che un inganno. Ma di lui fu predetto che era «destinato ad essere causa di rovina e di resurrezione di molti in Israele e a diventare un segno di contraddizione [...] e così saranno rivelati i pensieri di molti cuori» (Lc. 2,34-35). E lui stesso ha detto di sé: «Non pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Io sono infatti venuto a mettere in discordia il figlio col padre, la figlia con la madre e la nuora con la suocera» (Mt. 10,34-35).

Quindi, immaginare un mondo senza lotte e senza avversità è come concepire un mondo senza Gesù Cristo.

Facendo queste affermazioni, ho la impressione di vedere, in lontananza, contorcersi, esasperata, la setta più furibonda, più aggressiva, più intollerante e più intemperante, cioè quella costituita dalla famiglia spirituale di quanti avevano sognato un mondo senza ideologie, senza gerarchie, senza frontiere, senza divise, senza recinti, senza privacy né diritti individuali. Si tratta della famiglia spirituale che predica tolleranza verso tutti, ma odia a morte quanti osano discordare dalla ampiezza esagerata che essa attribuisce a questa tolleranza; di quanti vogliono la libertà di parola e di opinione per tutti, fatta eccezione per chi vuole fare uso della espressione per discordare da essa.

Il ribollire di questa rabbia non mi spaventa. La sento ruggire da quando ho cominciato a pensare. Nella misura in cui sono venuto avanzando nel corso della vita, ho percepito che il suo sguardo pieno di odio, le sue insidie, il sibilo delle sue calunnie mi seguivano incessantemente, in un crescendo implacabile.

Come posso concordare con il fatto che Giovanni Paolo II sia visto, in quanto Papa, come il Dottore di questa utopia, e, in quanto Karol Wojtyla, come il luogo dove si condensano e si teletrasmettono, a livello mondiale, questi effluvi sentimentali?

È impossibile. Al contrario, sono lieto di annunciare, anche prima di avere letto tutte le allocuzioni che ha tenute in Brasile, che nessuna di esse alza davanti al mondo la bandiera di questa utopia.

E, siccome niente mi autorizza a sperare di avere terminato la lettura delle allocuzioni di Giovanni Paolo II entro la prossima settimana, conto di comparire davanti ai miei lettori utopisti presentando loro un messaggio che mi giustifichi. Augusto, splendido e sonante messaggio che si è levato fra gli uomini nel lontano secolo XVII, e che oggi scende dal cielo, dal più alto dei cieli, molto da vicino al trono della Madonna.

Che messaggio! Quanto piacerà alle intelligenze riflessive, alle volontà eroiche e ai cuori puri.

Alla prossima volta, lettore.

(*) "Folha de S. Paulo", 19-7-1980.

 

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