Plinio Corrêa de Oliveira

 

 

Pellegrinaggio in uno sguardo

 

 

 

 

 

Trascritto dalla "Folha de S. Paulo", 12-11-1976 (*)

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Non conosco fisionomia uguale. La tengo bene davanti a me e, mosso dall'inveterata abitudine di osservare e spiegare tutto per mio stesso uso, la fisso con attenzione. E d'improvviso mi accorgo che entro in essa.

Sì, questa fisionomia unica sembra emani dal volto e specialmente dagli occhi. Mi avvolge nell'ambiente che essa crea. Nello stesso tempo, mi invita ad entrare nel fondo del suo sguardo.

Che sguardo! Nessuno è tanto limpido, tanto franco, tanto puro, tanto accogliente. In nessuno si penetra con tanta facilità. E tuttavia, anche, nessuno presenta profondità che si perdono in un così lontano orizzonte. Quanto più si cammina dentro questo sguardo, tanto più esso attrae per un indescrivibile apice interiore e profondo.

Quale apice? Lo stato d'anima che io sarei tentato di definire pieno di paradosso, se la parola paradosso, di cui tanto si abusa nel linguaggio corrente, non mi morisse sulle labbra come irrispettosa.

Ogni perfezione — dice la Scuola — risulta dall' equilibrio dei contrari armonici. Non si tratta in alcun modo di un equilibrio precario tra contraddizioni flagranti (e dicendolo, penso a questa povera pace, sclerotica e vacillante, che il mondo contemporaneo cerca di preservare a costo di tante concessioni e tante vergogne) ma di un'armonia suprema tra tutte le forme di bene.

E' precisamente questo vertice, in cui si combinano tutte le perfezioni, che vedo innalzarsi nel fondo di questo sguardo. Vertice incomparabilmente più alto di quello delle colonne che sorreggono il firmamento. Vertice dall'alto del quale un imperativo cristallino, categorico, irresistibile, esclude ogni forma di male, per quanto lieve ed esiguo possa essere.

Si può passare la vita intera camminando dentro questo sguardo, senza mai arrivare a toccarne il vertice. Cammino inutile? No. Dentro questo sguardo non si va, si vola. Non si passeggia; si fa un pellegrinaggio.

Quella montagna sacra, somma di tutte le perfezioni create, il pellegrino, senza mai raggiungerla, la vede sempre più chiaramente quanto più vola in direzione di essa.

Durante questo pellegrinaggio dell'anima, lo sguardo in cui vola, non solo lo abbraccia, ma penetra in lui. Quando il pellegrino chiude gli occhi, crede di vederlo come una luce nel più profondo di se stesso.

Ho l'impressione che se durante tutta la vita, egli fosse fedele in questo volo, al momento di chiudere definitivamente gli occhi, questa luce brillerebbe nel fondo della sua anima per tutta l'eternità.

L'occhio è l'anima della fisionomia. Che fisionomia questa che ho davanti a me! A uno sciocco sembrerebbe inespressiva. A un osservatore attento essa manifesta una pienezza d'anima maggiore della storia, perché tocca l'eternità. Maggiore dell'universo, perché rispecchia l'infinito.

La fronte sembra racchiudere pensieri che, partendo da un Presepio e terminando in una Croce, abbracciano tutti gli eventi umani.

Tutto il volto, il naso, la cui linea possiede uno “charme” “più bello della bellezza”, come dice il Poeta, le labbra silenziose, ma che dicono tutto in ogni momento, sembrano render gloria a Dio in ogni creatura, secondo le caratteristiche di ognuna; e implorare Dio per ogni miseria, come mosse a compassione dalle peculiarità di ognuna di esso. Queste labbra hanno un'eloquenza accanto a cui quella di Demostene o di Cicerone non sarebbe che un borbottio. E che dire della pelle: nivea? L'aggettivo dice tutto e non dice nulla.

Perché per descriverla bisognerebbe immaginare un niveo che lasciasse rifulgere nella sua profondità, con discrezione infinita, tutte le sfumature dell'arcobaleno e con ciò stesso ispirasse nell'anima di chi la contempla tutti gli incanti della purezza.

Sì, ho pellegrinato in questo sguardo così ricco di sorprese. E, inaspettatamente, mi accorgo che lo sguardo pellegrina nello stesso tempo dentro di me.

Povero e misericordioso pellegrinaggio, non di splendore in splendore ma di carenza in carenza, di miseria in miseria. Ma basta aprirsi ad esso perché esso, per ogni difetto mi offra un rimedio, per ogni ostacolo un aiuto, per ogni afflizione una speranza.

Ma, che cosa ho infine davanti a me? Un'immagine di legno come tante altre, senza nessun speciale valore artistico. Basta fissarla, tuttavia, perché, senza muoversi, senza la minima trasformazione, questa Immagine cominci a far rilucere tutti questi splendori.

Come? Non lo so neanche. Ma, se il lettore lo desidera, la contempli. È l'Immagine di Nostra Signora di Fatima, che ha pianto a New Orleans sui peccati degli uomini e sui castighi che essi stanno accumulando su di sé.

(*) Lepanto, Roma, Anno II – n.10, Gennaio 1982.


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