Plinio Corrêa de Oliveira
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Dall’opera “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, Edizione del cinquantenario (1959-2009), Presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco Edizioni, pag. 293-300 |
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Il Concilio e l’ugualitarismo moderno
[1] Nel
1959 Catolicismo mi ha concesso l’onore di segnare la
comparsa del suo centesimo numero pubblicando il mio saggio Rivoluzione
e Contro-Rivoluzione. Questo lavoro espone i princìpi
dottrinali e il panorama storico che ispirano la linea di
condotta della nostra rivista di fronte alla cultura e alla
vita odierne. È
opportuno che ci poniamo in quanto questo prisma dottrinale e
pratico ha di più fondamentale per meditare su di un
avvenimento di straordinaria importanza qual è il Concilio
Ecumenico Vaticano II. In
Rivoluzione e Contro-Rivoluzione abbiamo presentato le
tre grandi catastrofi della Cristianità, cioè la
Pseudo-Riforma, la Rivoluzione Francese e la rivoluzione
comunista, come un’unica, grande Rivoluzione che,
verificatasi in campo religioso-morale nel secolo XVI, si è
propagata sul terreno politico-sociale con la grande scossa
della fine del secolo XVIII e ha contaminato nei nostri tempi
la struttura economico-sociale dell’Occidente con
l’incendio mondiale del comunismo. Queste
tre catastrofi costituiscono i grandi segni dell’avanzare di
un processo storico in cui l’empietà, l’immoralità e
l’anarchia si vanno impadronendo dell’universo. L’empietà
ha avuto la sua prima grande vittoria nel protestantesimo.
Infatti intere nazioni, un tempo cattoliche, hanno negato il
carattere divino della santa Chiesa, pur dichiarandosi ancora
cristiane. Nello stesso tempo il Rinascimento — che, in un
certo senso, sta alla Pseudo-Riforma come le radiazioni stanno
all’esplosione della bomba atomica — ha disseminato anche
nei paesi cattolici il naturalismo. Da questo vittorioso
fermentare dell’empietà è nato, ed è giunto al suo apogeo
nel secolo XVIII, il deismo, che, senza negare l’esistenza
di Dio, è sceso ugualmente più in basso del protestantesimo,
negando la divinità di Gesù Cristo. La Rivoluzione Francese,
che ha esordito — in campo religioso — tentando
d’instaurare una «chiesa costituzionale» di tratto
marcatamente protestante, è infine degenerata nel deismo. E,
nel corso di essa, l’ateismo ha fatto il suo primo
tentativo, nella storia della Cristianità, di erigersi a
dottrina ufficiale di uno Stato. Da allora a oggi la scintilla
atea, sprizzata dal fuoco rivoluzionario, ha continuato a
svilupparsi. Il marxismo ha seminato l’ateismo su tutta la
terra. E il suo trionfo in Russia, nel 1917, fu il punto di
partenza per la costruzione dell’immenso impero — si
potrebbe dir meglio, dell’immenso inferno — ateo,
delimitato grosso modo dalla Cortina di Ferro e dalla
Cortina di Bambù. Dal
momento in cui riconosciamo l’esistenza di una sola morale
vera, quella insegnata dalla santa Chiesa, e il fatto che
costituisca oggettivamente un’immoralità ogni negazione di
questa morale, non sarà difficile vedere che l’immoralità
ha cominciato a penetrare ufficialmente nella legislazione e
nelle istituzioni dei popoli dell’Occidente, al momento
dell’irruzione protestante. Questo fatto si può cogliere in
modo particolare a proposito del matrimonio. Com’è noto, la
Chiesa ammette solamente il matrimonio monogamico e
indissolubile. Il protestantesimo ha introdotto il divorzio
— che è una poligamia successiva — nella legislazione di
quasi tutti i paesi nei quali ha trionfato. A partire dalla
Rivoluzione Francese, il divorzio ha cominciato a essere
accettato anche da nazioni cattoliche. Attualmente, in paesi
cattolici che non l’ammettono esplicitamente, comincia a
insinuarsi in modo velato, sotto forma di riconoscimento di
ampi effetti giuridici e di diversi vantaggi per il
concubinato. È quanto accade in Brasile. Questo movimento di
«legalizzazione» del concubinato, che da noi è ancora
velato, fa ricordare, per la somiglianza, l’annullamento
quasi completo del matrimonio come stato giuridico nelle
nazioni comuniste, dove il principio dominante è quello
dell’equiparazione dello stato di sposato a un semplice
stato di fatto, ammesso dalla legge. In questa immoralità sta
il tratto liberale permanente della Rivoluzione. Benché sotto
il giogo feroce della dittatura del proletariato, o sotto la
sferza del socialismo occidentale, l’uomo, sempre più
soggetto a leggi arbitarie fatte da altri uomini, si va «liberando»
sempre più dalle leggi di Dio. Infine,
per quanto dice relazione all’anarchia, cioè al rifiuto di
ogni autorità, di ogni gerarchia e, quindi, di ogni ordine
vero, il suo itinerario progressivo non è difficilmente
ricostruibile. La Rivoluzione ha cominciato negando, con il
protestantesimo, il principio monarchico rappresentato dal
Papa. Alcune sètte sono andate oltre e hanno negato
l’episcopato. Infine, altre sono giunte a negare il
sacerdozio. Come si vede, nel protestantesimo sta il germe del
falso ideale dell’uguaglianza completa in materia religiosa:
quanto più una sètta è marcatamente protestante, tanto più
è ugualitaria. Questo germe, passando alla sfera civile, ha
generato il principio dell’assoluta sovranità del popolo,
che nega in ultima analisi ogni potere e che ha trionfato con
la Rivoluzione Francese. Il
comunismo nega ogni disuguaglianza economica e sociale, e ha
come ideale ultimo l’anarchismo, stato di cose in cui lo
Stato cesserebbe di esistere, la società umana sarebbe
ridotta a un’immensa cooperativa, nella quale cesserebbe
l’autorità dell’uomo sull’uomo e verrebbe riconosciuta
come legittima solo l’autorità dell’uomo sulle cose. Come
può l’umanità abbandonare l’ideale, pieno di fede, di
gerarchia e di purezza, della Cristianità, per lasciarsi
sedurre dalla Rivoluzione empia, dissoluta, ugualitaria, ossia
anarchica? Attraverso
il processo di degrado morale caratterizzato dalla vittoria
ottenuta a poco a poco di due difetti capitali: l’orgoglio
che porta all’empietà e all’ugualitarismo, e la sensualità,
che porta a una forma perfetta di liberalismo. Così
questi difetti morali sono oggi al vertice della loro
esacerbazione. E il Concilio si riunisce in un mondo segnato
da questo fatto di somma importanza. *
* * Che
cosa dire a proposito di questo singolare contrasto? Lasciamo
ad altri il compito, forse vano, di fare pronostici sulle
future decisioni del Concilio. Non tenteremo di mettere in
risalto il contrasto fra la Rivoluzione e il Concilio sulla
base di quanto questo farà, ma di quanto questo è. Che
cos’è un Concilio? E che lezione impartisce al mondo il
semplice fatto che si riunisca? *
* * All’interno
di un tema tanto vasto, prendiamo semplicemente in
considerazione che cosa significa in materia di ugualitarismo
la prossima riunione del Concilio. San
Pio X, nell’enciclica Vehementer Nos, dell’11
febbraio 1906, proclama: «La
sacra Scrittura ci insegna, e la tradizione dei Padri ci
conferma, che la Chiesa è il Corpo Mistico di Gesù Cristo,
guidato da Pastori
e da Dottori (cfr. Ef. 4, 11ss.); cioè una
società di uomini in seno alla quale si trovano dei capi che
hanno pieni e perfetti poteri per governare, per insegnare e
per giudicare (cfr. Mt. 28, 18-20; 16, 18-19; 18, 17; Tt.
2, 15; 2 Cor. 10,
6; 13, 10 e altrove). Ne risulta che la Chiesa è per sua
natura una società ineguale, cioè una società
formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge,
coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la
folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente
distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il
diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare
tutti i membri verso le finalità sociali; e la moltitudine
non ha altro dovere che lasciarsi guidare e seguire docilmente
le direttive dei Pastori»[2]. Queste
parole, di una chiarezza lapidaria, compendiano adeguatamente
per il mondo attuale, tutto imbevuto di liberalismo religioso
e morale e di ugualitarismo, la mirabile lezione che il
Concilio dà a esso fin da subito e per il semplice fatto di
riunirsi. Infatti,
il mondo oggi tende sempre più a considerare ogni
disuguaglianza come un’ingiustizia. Se
ne può vedere abbondante prova nella demagogia scatenata a
proposito delle cosiddette riforme di base. Benché vi siano
innegabili abusi da correggere nella struttura politica,
sociale ed economica dei paesi occidentali, è fuor di dubbio
che l’agitazione demagogica non mira a correggerli, ma li
assume come pretesti ingannevoli per portare a termine la
distruzione delle gerarchie saggiamente e organicamente
prodotte nell’Occidente cristiano da un’opera
plurisecolare. Sarebbe
facile dimostrare che l’ugualitarismo è contrario
all’ordine voluto da Dio nell’universo e che l’ordine e
la bellezza di questo consistono in una giusta e armoniosa
disuguaglianza. Ancor più: quanto più elevata è la
categoria degli esseri, tanto maggiore è la disuguaglianza
esistente fra loro. Le disuguaglianze fra gli angeli, che sono
puri spiriti, sono maggiori di quelle che vi sono fra gli
uomini, esseri spirituali e anche corporei. E le
disuguaglianze fra gli uomini sono maggiori di quelle
esistenti fra gli esseri puramente materiali. Così, la
disuguaglianza che va da un santo a un individuo di comune
virtù non è assolutamente paragonabile a quella che vi è
fra animali, non dotati di volontà. Perciò, amare le
disuguaglianze legittime e giuste significa amare l’opera di
Dio, e in ultima analisi Dio stesso, che nella creazione si
specchia per farvisi conoscere e amare da noi. A
questa importante considerazione di ordine naturale se ne
aggiunge un’altra, in rapporto con la Rivelazione. L’apertura
del Concilio Vaticano II offre occasione di meditare con
particolare attenzione una verità posta quotidianamente sotto
i nostri occhi, che però l’uomo moderno e ugualitario,
figlio della Rivoluzione, rifiuta di riconoscere. La
disuguaglianza giusta e armonica è in tal modo il sigillo
delle grandi opere di Dio che Nostro Signore Gesù Cristo,
fondando il capolavoro della creazione che è il suo Corpo
Mistico, la santa Chiesa Cattolica, l’ha costituita società
disuguale, nella quale vi è un monarca che è il Papa, con
giurisdizione piena e diretta su tutti i vescovi e i fedeli,
in ogni diocesi vi sono príncipi spirituali ai quali tocca,
in unione e in comunione con il Papa, governare i fedeli, e vi
è il clero che, sotto la direzione dei vescovi, regge nelle
diverse parrocchie il popolo cristiano. Le somme autorità e
dignità del Papa, la venerabile autorità dei vescovi, sono
state istituite direttamente da Gesù Cristo e non potranno
mai essere abolite. E così il Divino Maestro ha voluto
provvedere alla salvezza delle anime, in tutti i tempi e in
tutti i luoghi, attraverso l’istituzione della Sacra
Gerarchia. Quindi, ha fatto di una saggia e paterna
disuguaglianza uno dei tratti caratteristici della sua Chiesa. Orbene,
la virtù che porta i fedeli all’accettazione sottomessa e
amorosa di questa disuguaglianza è l’umiltà. E, in questo
modo, lo stesso Cristo che ha voluto che la sublimità della
Chiesa rifulgesse con la magnificenza di un’immensa
gerarchia di gradi ben diversificati, ha voluto che l’umiltà,
l’amore alla gerarchia, fosse una delle caratteristiche
dello spirito cattolico. In questo modo autorità, gerarchia e
umiltà sono termini correlati. E
così l’opposizione fra la Chiesa e la Rivoluzione non
potrebbe essere maggiore. *
* * Forse
si dirà che questo modo di presentare l’argomento confonde
i termini del problema. Il fatto che il fedele sia obbligato a
rispettare la gerarchia ecclesiastica non l’obbliga ad
accettare come perenne e definitivo il dominio degli uomini
che costituiscono una determinata classe nella società
temporale. Gli
uomini, nella Chiesa come nella società civile, passano. Ma i
princìpi restano. Il dominio degli elementi umani che formano
una classe può cessare per cause giuste o ingiuste. Ma non
passa il principio secondo cui una giusta e armoniosa
disuguaglianza è una caratteristica necessaria di questa
creazione e dell’intero ordine temporale, principio che Gesù
Cristo ha voluto conservare nell’economia della grazia e
nell’organizzazione della santa Chiesa. E bisogna che gli
uomini non solo conoscano questo principio, ma pure che lo
amino, se vogliono conoscere e amare Dio. *
* * Dicevamo
or ora che il carattere gerarchico della Chiesa è
quotidianamente sotto i nostri occhi. Ma
risplende in modo tutto speciale in occasione di un Concilio
Ecumenico e questo per due motivi principali. In
primo luogo perché, negli splendori dell’atto inaugurale e
delle sessioni pubbliche, quando si vede il Romano Pontefice
rifulgere come Padre, Maestro e Re spirituale di tutti i
popoli, circondato dai vescovi di tutto l’orbe cattolico —
il che oggi equivale a dire puramente e semplicemente di tutto
l’orbe —, quanto vi è d’intrinsecamente sublime nel
carattere gerarchico della Chiesa diventa palpabile e balza
agli occhi. In
secondo luogo perché, vedendo questa grande assemblea che si
riunisce convocata dal Vicario di Cristo e sotto la sua
presidenza, inoltre realizza studi, dibattiti e votazioni per
insegnare la Verità e per legiferare nella prospettiva di
portare gli uomini in Cielo, tutti i cattolici possono avere
una nozione ancora più viva e più profonda di quale sia
l’ampiezza delle funzioni, la tremenda, santissima e
mirabile autorità della gerarchia ecclesiastica. A
questo riguardo è necessaria un’osservazione. In
quest’epoca di elezioni e di congressi, nella quale si vota
e si discute a ogni proposito, qualche osservatore
superficiale può farsi l’idea che il Concilio è, per il
popolo fedele, precisamente un’assemblea rappresentativa,
come la Camera dei Comuni in Inghilterra, oppure la Camera dei
Rappresentanti negli Stati Uniti. Errore. I vescovi non sono
mandatari del popolo, destinati a esprimere docilmente in
Concilio non la propria volontà, ma quella dei loro diocesani. Il
vescovo non riceve i suoi poteri dal popolo, ma da Dio. È
istituito per guidare i fedeli e non per essere guidato da
loro. La sua missione non consiste nell’essere nella Chiesa
il portavoce degli uomini, ma di Dio. D’altro
canto, il Concilio non sta al Papa come al capo dello Stato
stanno le assemblee legislative istituite, dopo il 1789, per
frenare e per controbilanciare il suo potere. Il
Concilio Ecumenico si può riunire solamente per convocazione
del Sommo Pontefice. Questi, di persona o attraverso i suoi
legati, ne è il presidente naturale. Il Papa può, in
qualsiasi momento, sospenderlo o chiuderlo. E le deliberazioni
dei Padri Conciliari, quali che siano, sia di natura docente,
sia legislativa, hanno valore soltanto se accettate e
approvate dal Vicario di Cristo. L’autorità del Concilio si
concepisce solamente in unione con colui che, per divino
mandato, tiene in mano la chiave che, quando apre, nessuno può
chiudere e, quando chiude, nessuno può aprire (cfr. Apoc.
3, 7). *
* * Così
è il Concilio Universale, istituzione mirabilmente gerarchica
della quale la Provvidenza ha dotato la santa Chiesa e che,
per il semplice fatto di riunirsi, insegna ai fedeli un grande
principio: se vi sono disuguaglianze ingiuste, bisogna
correggerle; se vi sono disuguaglianze eccessive, si deve dare
a esse una misura proporzionata; ma, — e in questo consiste
la lezione — in sé le disuguaglianze giuste e armoniche,
nella sfera civile come in quella ecclesiastica, sono un bene.
Quindi vanno amate e preservate. E questo perché è
vantaggioso per lo stesso bene comune spirituale e temporale.
Infatti tali disuguaglianze sono, per divino volere, la base e
la garanzia dell’ordine. Ebbene, tutto quanto non è
l’ordine voluto e determinato da Dio può solamente portare
al caos e alla catastrofe. *
* * Questa è la grande lezione, solida e sicura, che, in opposizione all’ugualitarismo rivoluzionario, il Concilio dà fin da subito a tutti gli uomini, lezione che equivale, di per sé stessa, a un incitamento a rivestirsi dello spirito di Gesù Cristo e ad abbandonare quello della Rivoluzione.
La
Madonna di Fatima, il cui messaggio costituisce un
avvertimento nello stesso tempo luminoso e tremendo per i figli dell’empietà e della Rivoluzione, voglia far fruttificare nelle anime questa mirabile lezione che, per il semplice fatto di aver convocato il Concilio, il Santo Padre Giovanni XXIII dà al mondo.
[1]
Plinio Corrêa de Oliveira, O
Concilio e o igualitarismo moderno, in Catolicismo,
anno XII, n. 142, Campos (Rio de Janeiro) ottobre 1962,
senza numerazione di pagina, ma p. 7, trad. it., Il
Concilio e l’ugualitarismo moderno, nel mio Plinio Corrêa de Oliveira e il giudizio sul Concilio Ecumenico Vaticano
II, Alleanza Cattolica, pubblicazione extracommerciale,
Roma 2003, pp. 33-39 (ndc). [2] [San Pio X (1903-1914), Epistola encyclica «Vehementer Nos» de Ecclesiae in Gallia asperrima conditione, dell’11-2-1906, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X. Benedetto XV. (1903-1922), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998, pp. 146-171 (p. 157).]
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