Plinio Corrêa de Oliveira

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Dall’opera “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, Edizione del cinquantenario (1959-2009), Presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco Edizioni, pag. 219-242

Note sul concetto di Cristianità

Carattere spirituale e sacrale della società temporale

e sua «ministerialità» [1]

La Pensée Catholique[2], nel numero 26 del 1953, ha pubblicato due studi molto illuminanti sul problema, oggi tanto dibattuto fra scrittori cattolici, dei rapporti fra la Chiesa e lo Stato: il discorso di S. Em. il cardinale Ottaviani (1916-1979) all’Ateneo Lateranense[3] e l’articolo di don Luc Lefèvre su État et Église[4].

Dall’uno e dall’altro lavoro riesce evidente in modo palese che l’argomento è stato ormai da molto tempo chiarito dalla Chiesa e che, per dissipare i dubbi sorti ai nostri giorni a questo proposito, basta richiamare i documenti ufficiali dei Papi e l’insegnamento tradizionale dei Dottori e della teologia.

In questo senso, tali due lavori hanno ormai detto l’essenziale. Tuttavia, a titolo puramente sussidiario, abbiamo pensato non essere forse inutile analizzare alcuni aspetti di una delle tesi fondamentali della Chiesa relativamente al problema dei rapporti fra lo spirituale e il temporale, quella della «ministerialità» di quest’ultimo in relazione a quello.

Ci sembra che l’ambiente dei nostri giorni inculchi in tal modo una concezione materialistica e puramente economica della vita temporale da esercitare un’influenza sensibile sulla formazione spirituale, sulle abitudini mentali e sulle tendenze nel campo delle idee di persone che, almeno in tesi, si presume siano fedeli alle grandi linee del pensiero cattolico e perfino tomista. Persone come queste avrebbero meno difficoltà ad accettare la posizione della Chiesa sulla ministerialità del temporale se ricordassero molto precisamente tutto il contenuto umano della sfera temporale. 

I  

A che questo contenuto non appaia così chiaramente agli occhi di tutti hanno contribuito scrittori eccellenti; involontariamente, è chiaro, e per ragioni spiegabili.

Gli autori, che sostengono la dottrina secondo cui la società umana non esiste in conseguenza di un patto arbitrario stipulato da un certo numero di uomini in età che si perdono nella notte dei tempi, ma è una conseguenza spontanea, legittima e ineluttabile dell’ordine naturale stesso, espongono dettagliatamente, e con ogni cura, gli argomenti forniti alla loro tesi dall’osservazione della vita quotidiana: necessità della specializzazione e della collaborazione per garantire la sopravvivenza materiale e il progresso; necessità di un’autorità per dirigere la collaborazione e così via. E, quindi, necessità naturale di una società con tutte le sue caratteristiche essenziali.

Fondata su questa base, la dimostrazione, oltreché irreprensibile, è altamente pedagogica, perché prende in considerazione fatti chiari, semplici, tangibili, che si situano nell’ambito dell’osservazione diretta e personale di qualunque lettore.

Si capisce come un autore, pressato dall’ossessione di riassumere, che gl’impone l’attuale corri corri, tratti superficialmente altri argomenti, oppure li taccia anche. Questo accade non raramente con l’argomento tratto dal fatto che l’uomo è sociale per la natura della sua stessa anima, prescindendo da qualsiasi necessità del corpo. In non poche opere di ogni specie, genere e dimensione, che mettono alla portata del pubblico le linee maestre del diritto naturale, questo argomento non è esaminato in tutta la sua ricchezza.

Ne deriva, nella formazione della mentalità del lettore, una conseguenza importante. Un gran numero di studiosi si abitua a vedere nella società umana qualcosa che esiste unicamente, o almeno principalmente, per prendersi cura delle necessità fisiche dell’uomo. Questo convincimento non deriva da un’affermazione esplicita di questo o di quel trattatista, ma si forma nel subconscio come impressione generale che, se non è logica, è almeno spiegabile. Infatti, se gli argomenti ricordati con maggiore insistenza, svolti con maggiore ampiezza, sono quelli che si fondano sulle necessità materiali, economiche, pratiche, non deve sorprendere che si formi la nozione secondo cui la società esiste soprattutto per prendersi cura di queste necessità e che a poco a poco i fini della società, relativi all’anima umana, passino dal secondo piano a una completa dimenticanza.

Come abbiamo detto l’atmosfera contemporanea è tale da favorire potentemente questo fenomeno. Viviamo in un ambiente saturo di materialismo, nel quale in ogni momento sentiamo opinioni che sarebbero vere..., assistiamo ad azioni che sarebbero legittime..., siamo posti di fronte a istituzioni e a costumi che sarebbero ragionevoli... solamente se l’anima umana non esistesse. Il materialismo è immanente e sottinteso in quasi tutto quanto accade attorno a noi.

Quindi non ci si può meravigliare che, tante e tante volte, si veda questo o quel cattolico — che ha studiato onestamente le linee generali della filosofia morale e ha letto in san Tommaso[5] che la società temporale ha il fine di porre rimedio all’insufficienza non solo fisica ma anche intellettuale dell’uomo a vivere solo — assumere di fronte ai problemi politici, sociali ed economici con cui si confronta un atteggiamento pratico che differisce per poco dalla posizione del materialista o dell’agnostico. 

II  

Poiché l’uomo è costituito da due princìpi distinti, corpo e anima, è chiaro che di tutto quanto lo riguarda sarà molto più importante ciò che concerne l’anima di quello che concerne il corpo; quindi ciò che è spirituale e imperituro ha più valore di quanto è materiale e mortale.

Tutta la sociologia che procede da questa verità deve dare il meglio della sua sollecitudine e della sua attenzione a quanto dice relazione all’anima umana, al suo equilibrio, al suo benessere, al suo sviluppo. Per quanto interessanti e rispettabili siano i problemi materiali, per quanto grandi siano il talento, la diligenza, la forza che si devono usare nel risolverli, non bisogna mai dimenticare questa verità fondamentale.

Evidentemente non si tratta di dedicare alla vita materiale meno di quanto meriti, dal momento che l’uomo è uomo e non un puro spirito angelico.

Ma, anche quando si dia alla materia ampiamente quanto a essa si deve, è necessario non violare la gerarchia dei valori e non concepire i problemi materiali dissociandoli dalla realtà umana piena e totale, cioè dal fatto che abbiamo anche un’anima e che essa vale di più, incomparabilmente di più, del nostro corpo.

Il mondo moderno ha misconosciuto questi princìpi, ha elevato il corpo all’altezza di un idolo e ha negato il primato dell’anima, quando non la sua stessa esistenza. Tutto è stato organizzato come se l’uomo avesse soltanto un corpo.

Il risultato è davanti a noi: le nevrosi, le psicosi, le perversioni sessuali mostruose, l’esistenzialismo, la cacofonia della grande confusione dei nostri giorni. L’opera di Alexis Carrel (1873-1944) — sulla quale, per altro, si dovrebbero avanzare riserve — sta già diventando vecchia, ma può essere riletta con vantaggio da quanti desiderano informarsi su ciò che sta costando all’uomo la sottovalutazione o la negazione dell’anima nel progresso tecnico-materiale del nostro secolo[6].

Quindi si tratta — e molti lo riconoscono — di ristabilire il primato dello spirituale.

Ma perché questa intenzione non resti soltanto nel mondo delle affermazioni verbali e si trasformi in un’azione tangibile, dai fini definiti, bisogna indagare in che consista, con la massima esattezza, la parte dello spirituale nella vita condotta dall’uomo in società. 

III  

Considerata l’anima umana nella sua natura, nelle sue potenze, nella sua attività, in che senso può avere una vita sociale?

Poiché un campo della vita sociale comprende relazioni puramente spirituali da uomo a uomo, può sembrare che si situi a un’altezza così elevata da non poter dire a suo proposito nulla di definito e di utile. Questa impressione si dissolverà nel caso facciamo ricorso a quanto la Chiesa c’insegna sugli angeli.

L’angelo è un essere puramente spirituale, creato per conoscere, amare, lodare e servire Dio. Poiché questa è la sua unica ragion d’essere, a questo fine si ordinano tutte le sue potenze, tutte le sue inclinazioni naturali. A questo fine la grazia lo illumina e lo esalta, quando lo eleva all’ordine soprannaturale, dandogli la visione beatifica e l’amore soprannaturale.

Quindi l’angelo ha necessità di una società: quella di Dio. E non potrebbe vivere nell’ignoranza del Creatore. Ma questa società gli basta per due motivi. In primo luogo perché Dio è la perfezione stessa e chi Lo possiede non necessita di niente di più. In secondo luogo perché la natura dell’angelo si ordina a Dio e solo a Lui.

A rigore, la natura di un puro spirito è tale che Dio potrebbe aver creato solo lui oppure aver disposto che lui non conoscesse altro essere se non Dio stesso.

Ma il Creatore ha costituito in altro modo la creazione angelica. Ha voluto che gli angeli si conoscessero gli uni gli altri, istituendo quindi fra loro una vita sociale che, evidentemente, è tutta spirituale.

Però questa vita sociale ha Dio come oggetto ultimo. Quindi nelle conoscenze che gli angeli comunicano gli uni agli altri, trasmettono solamente quanto ciascuno può annunciare di Dio. Così ogni angelo ha tutte le operazioni delle sue potenze applicate a Dio in due modi, uno diretto, nella misura in cui ha commercio immediato con Lui, e un altro mediato, in quanto comunica con Lui attraverso altri angeli.

Così stavano le cose prima della creazione del nostro universo. Quando questo è stato creato, la sua conoscenza è stata palesata agli angeli. E, siccome il nostro universo annuncia anche, a suo modo, le grandezze di Dio, gli angeli hanno acquisito in ogni essere materiale creato oggetti immediati di conoscenza, che li portano attraverso le loro vie specifiche a Dio, oggetto unico, costante, di tutte le operazioni angeliche.

L’angelo sa per che via l’osservazione del sole, della pioggerella o del tuono elevava a Dio il salmista; o per che via un fiore o un passero elevava a Dio san Francesco d’Assisi [1182-1226]; oppure per che via le meraviglie dell’atomo possono elevare a Dio l’uomo moderno... e se ne serve come via verso Dio.

Chi potrà mai, in questa vita terrena — se non la Vergine Santissima —, cogliere quanto costituisce la meditazione e l’amore di un angelo che conosce tutto il nostro universo fin nel più piccolo dei suoi segreti? Vede con un solo colpo d’occhio il pulsare simultaneo della vita in tutti gli esseri e il movimento incessante e misterioso della materia negli spazi incommensurabilmente grandi nei quali si muovono gli astri; negli spazi incommensurabilmente piccoli in cui ruotano gli universi e le costellazioni degli atomi, e in tutto discerne la Sapienza Eterna, il Potere assoluto e irremovibile, la perfezione dell’Amore «[...] che move il sole e l’altre stelle»[7]?

Abbiamo parlato più specificamente della conoscenza e dell’amore. Una parola sulla lode e sul servizio di Dio.

Fatto per lodare, l’essere angelico è di una natura per così dire «esclamativa». La conoscenza e l’amore non si perdono senza risonanza nelle auguste profondità del suo stesso essere. Trasmette, comunica, esprime quanto gli accade internamente, senza dubbio per un dovere di giustizia e di amore verso Dio, ma anche, indubbiamente, per un impulso della sua stessa natura. Da ciò l’incessante lode angelica, la cui magnificenza la Scrittura ci manifesta tante volte con parole e simboli così diversi.

Fatto per servire, l’angelo non è solamente contemplativo, ma more suo ha una natura attiva. Comunica agli altri quanto conosce di Dio: svolge un servizio docente. È l’agente della volontà di Dio nella direzione dell’universo, perché Dio governa la creazione visibile per mezzo degli angeli. E questa funzione esecutiva comporta un aspetto militante, perché è il guerriero di Dio, che prima dei secoli ha abbattuto Satana e i ribelli, e oggi combatte l’inferno, protegge i fedeli e la Chiesa nella lotta contro il potere delle tenebre.

Ecco dunque quanto l’angelo fa di sua propria natura; quanto fa come membro della società angelica; quanto la società angelica fa nel suo insieme, in quanto società, secondo l’impulso e il disegno di Dio. 

IV

Queste nozioni relative alla socievolezza e alla vita sociale degli angeli sono applicabili all’anima umana, in quanto anche questa è in sé stessa completamente spirituale. Ma incorreremmo in gravi errori se, facendo la trasposizione di queste nozioni dal regno angelico alla società terrena, non prendessimo in considerazione che l’anima umana è stata creata per vivere legata a un corpo di carne, destinato a costituire con essa una sola persona, e che, quindi, tutta la natura spirituale dell’anima umana si ordina a tale consorzio con la materia, e che solamente in questo consorzio trova il suo modo di essere e di agire completamente normale. Questo consorzio è tanto intimo che, nel periodo in cui l’anima vivrà dissociata dal corpo, in attesa della risurrezione, si troverà in uno stato anormale, per così dire di violenza, certamente indolore perché godrà della felicità celeste, ma in ogni caso di violenza autentica, che verrà meno solo con la risurrezione. Quando la nostra anima assumerà di nuovo il nostro corpo non lo farà come chi ritorna in un carcere, ma come chi riacquista gioiosamente la pienezza di sé stessa.

Per prendere in esame la parte dello spirito e della materia nelle operazioni specificamente spirituali dell’uomo, e quindi nella socialità e nella vita sociale della sua anima, ricordiamo anzitutto che «non habemus hic civitatem»[8]. Siamo stati creati per lo stesso fine per cui sono stati creati gli angeli, come loro siamo stati elevati all’ordine soprannaturale e, in quell’eternità davanti alla quale la vita terrena è un puro istante, dovremo partecipare alla società spirituale degli angeli contemplando, amando, lodando e servendo Dio. Tale è l’affinità fra la natura e le operazioni della nostra anima e quelle degli spiriti angelici. Il nostro corpo parteciperà certamente di queste operazioni; ma nello stato di corpo glorioso, cioè a tal punto imbevuto, per così dire, della spiritualità della nostra anima e della grazia di Dio, che il suo stesso modo d’essere e di operare sarà come esaltato oltre il livello proprio della pura natura umana e fissato nell’immortalità. Fatte queste riserve, vediamo che l’anima umana è tanto socievole da realizzare il proprio destino eterno in una vita sociale che avrà oggetto puramente spirituale.

Forse questo ci può aiutare a capire meglio come si realizzi la vita, e più particolarmente la vita sociale, delle anime nell’esistenza terrena. E come questa vita sociale autentica abbia come oggetto valori integralmente spirituali.

Se il nostro fine proprio è conoscere, amare, lodare e servire Dio, la nostra natura, massimamente in quanto elevata all’ordine soprannaturale, deve tendere integralmente a questo fine. Ossia tutte le nostre attività mentali e fisiche devono dirigersi alla conoscenza della verità e alla pratica del bene.

Questa è reale relativamente alla nostra natura in Cielo, ma anche nella vita terrena, perché la nostra natura è già quanto dev’essere eternamente e, quindi, le sue tendenze di fondo sono già quelle che saranno eternamente.

E come la vita terrena non può essere in contrasto con la nostra natura, essa è già in qualche modo, nella sua sostanza, in quanto ha di più interiore, di più essenziale e di più intimo, sul piano naturale come sul piano soprannaturale, la vita stessa di contemplazione, amore, lode e servizio di Dio che avremo in Cielo. 

V

Se l’essenziale della nostra vita terrena consiste in questo, bisogna inoltre ricordare che il modo in cui realizziamo qui queste operazioni diverge profondamente dal modo in cui le realizzeremo in Cielo.

Nell’eternità avremo la visione beatifica senza veli né ostacoli. Il nostro amore avrà raggiunto una pienezza definitiva. La nostra lode e il nostro servizio saranno senza macchia né debolezza.

Al contrario, nella vita terrena siamo in condizione di prova. Abbiamo doni naturali e soprannaturali da conservare e da sviluppare. Le nostre azioni — anche le migliori — e, quindi, pure la nostra lode e il nostro servizio sono infetti da imperfezioni. Il nostro normale modo d’essere ci rende molto più soggetti alla materia di quando i nostri corpi saranno stati trasfigurati dalla gloria. Nonostante tutto questo, è assolutamente vero che l’uomo, anche il più distratto, contempla attivamente. Per rendercene conto basterà che chiariamo che cos’è concretamente, nella vita terrena, e sul piano naturale, una contemplazione[9].

Che cosa fa un uomo quando si ferma sul cammino per veder passare una sfilata militare o una processione religiosa, per guardare con attenzione un edificio o un panorama, per osservare una scena particolarmente importante o pittoresca della vita quotidiana, per assistere a uno spettacolo teatrale? Contempla, cioè fissa l’attenzione su un determinato oggetto, prende conoscenza di quanto in esso vi è di vero o di falso, di buono o di cattivo, accetta, consente, in qualche modo assimila nella sua stessa anima la verità e il bene; sperimenta una dissonanza, rifiuta, opera una certa quale purificazione in sé stesso di quanto la cosa gli possa aver comunicato di cattivo. Avendo davanti agli occhi esseri relativi e contingenti, che hanno in sé il riflesso dell’Essere assoluto, l’uomo, attraverso i canali dei sensi, prende in considerazione negli esseri contingenti qualcosa che esiste in modo assoluto in Dio; in qualche modo si appropria di questo bene, nell’atto stesso in cui lo prende in considerazione; si configura a questo bene; insomma, compie un atto caratteristicamente contemplativo, benché segnato dalle condizioni inseparabili da questa vita terrena. Purtroppo molti uomini, realizzando questi atti di contemplazione, non si elevano in nessun modo fino a Dio, e si fermano nella fruizione egoistica e circoscritta all’essere relativo che hanno davanti a loro.

Spesso la loro conoscenza è viziata e accoglie l’errore e non la verità; la contemplazione li porta ad assimilare il male e non il bene. Il fatto è che, evidentemente, così come vi sono contemplazioni buone, vi sono anche contemplazioni cattive. Sono i trionfi del mondo, della carne e del diavolo [cfr. 1 Gv. 2, 16]. Nonostante tutto questo, l’azione che realizzano è essenzialmente contemplativa, benché possa essere puramente naturale, ed è un’affermazione del fatto che nell’uomo vi è una tendenza alla contemplazione che non può essere sopita.

Questa contemplazione porta con sé, necessariamente, come conseguenza la lode o la sua antitesi che è la bestemmia, perché in terra come in Cielo, come nell’inferno, l’uomo è, come abbiamo detto, «esclamativo», cioè propenso a comunicare quanto gli accade nell’anima. E porta al servizio, perché l’uomo serve naturalmente quanto ama, la Città di Dio o la Città del Demonio, la verità o l’errore, il bene o il male.

In questo modo l’anima umana realizza da ora, su questa terra, per la propria salvezza o per la propria condanna, le grandi operazioni che è portata a realizzare per tutta l’eternità. Chiaramente questa contemplazione, nella misura in cui è fatta alla luce della fede, è un’operazione animata dalla grazia. 

VI

Da quanto è stato detto risulta l’evidente necessità per l’anima umana di entrare in contatto con oggetti esterni, sui quali possa esercitare la sua attività. L’ipotetica carenza di tali oggetti lascerebbe le sue potenze nell’atrofia e ridurrebbe la sua vita al semplice fatto di esistere.

Come il corpo umano si può alimentare a pane e acqua, ma si ammalerà passando lungo tempo soltanto con questi alimenti, così anche l’anima umana non si può alimentare con la semplice osservazione di un oggetto o di un numero molto piccolo di oggetti. In tal caso le sue operazioni oltrepasserebbero chiaramente le frontiere del semplice esistere, ma porterebbero l’anima a un operare tanto difettoso che gliene deriverebbe uno squilibrio. È il caso di certi operai, costretti dalla loro professione a restare ore intere con l’attenzione rivolta a uno stesso fatto semplice, povero, quasi asfissiante: per esempio un segnale luminoso, il cui accendersi o spegnersi più o meno irregolare si tratta di registrare minuto dopo minuto su un pezzo di carta, per dieci o dodici ore di lavoro quotidiano. Certe costituzioni mentali, eccezionalmente ben dotate, potrebbero forse riprendersi da questo lavoro con una distrazione dell’attenzione in ore di riposo. Ma altre morirebbero quasi come di anemia. La nostra anima è stata fatta per osservare l’universo, tutto l’insieme degli esseri sui quali i nostri sensi tendono normalmente ad applicarsi.

Di questi esseri chi occupa il posto centrale sulla scena, chi domina gli altri, chi in un certo modo li compendia tutti in sé, è l’uomo stesso. L’anima umana, naturalmente creata per osservare l’universo, è perciò stesso inclinata con la maggior passione, dall’impulso più profondo e più persistente di tutto il suo essere, alla contemplazione di quanto l’universo ha di più essenziale: gli altri uomini. L’intero Eden, con le sue delizie, era inadeguato all’uomo prima della creazione della donna: «non era bene»[10] che in esso l’uomo restasse solo. In questa propensione essenziale dell’uomo a realizzare sulla terra quanto farà in Cielo è inclusa la necessità di conoscere e di prendere contatto con altri uomini. E in questo sta, dal punto di vista dell’anima — cioè dal più importante dei punti di vista attinenti all’uomo — l’autentica necessità della vita sociale.

Quelli la cui anima è la stessa immagine e somiglianza di Dio devono naturalmente avere, nelle condizioni della vita terrena, come oggetto più costante, più ricco, più vivo, più diretto le funzioni di conoscere, amare, lodare e servire Dio nello specchio della creazione. 

VII

Come si realizzano queste operazioni? Conoscendo meglio il prossimo, che è la somiglianza di Dio, conosciamo meglio noi stessi e lo stesso Dio. Assimilando in noi le virtù del prossimo, arricchiamo la nostra anima con qualcosa che le è completamente connaturale e che riflette Dio con alto tenore di realtà. Così, possiamo per certo avere qualche idea dell’amore osservando la protezione che la chioccia dà ai suoi pulcini e con ciò possiamo crescere in virtù. Ma la nostra idea sarà molto maggiore, di norma molto più decisivo lo stimolo se osserviamo una madre che protegge il proprio figlio. Questo, sia per farci un’idea dell’amore umano, sia principalmente dell’amore divino.

La contemplazione non è solo conoscenza, ma amore. Una delle espressioni più entusiastiche e più irresistibili della nostra socievolezza sta nella necessità di amare e di essere amato, inseparabile dalla natura di ogni uomo. Con qualche adattamento, il nostro amore si volge alle cose del regno minerale, del regno vegetale, del regno animale. Possiamo amare un bel cristallo che troviamo a fior di terra durante una passeggiata; più adeguatamente amiamo una pianta, per esempio una rosa; la parola amore diventa ricca di un senso maggiore quando ha come oggetto un animale, per esempio il cane, compagno fedele nei giorni buoni e cattivi; ma è propriamente amore soltanto quando ha per oggetto un essere della nostra specie. Quest’ultimo amore, incomparabilmente maggiore degli altri appena enumerati, ci dà un’idea dell’amore che dobbiamo a colui che è l’Essere assoluto, l’Essere per eccellenza, l’Essere che contiene in sé sostanzialmente tutte le perfezioni.

La contemplazione non è pura conoscenza, né puro amore: essa è anche assimilazione. Infatti lo specifico dell’amore sta nel produrre l’assimilazione fra due esseri. Perciò si nota nell’uomo come uno dei tratti più essenziali della sua natura una profonda influenzabilità da parte di altri uomini, ma specialmente da parte di quanti ammira. Imitare è una tendenza propria a tutti, ed è lungi dall’essere in sé stessa cosa degradante o ridicola. Vi possono essere imitazioni che hanno per oggetto persone indegne. Vi possono essere imitazioni che hanno per oggetto persone degne, le cui qualità particolari qualcuno cerchi di assimilare in modo eccessivamente preciso e, quindi, in quanto è inconfondibile in una persona e non trasferibile in un’altra. Sono gli errori presenti nell’operazione d’imitare come in qualsiasi altra operazione umana. Ma in sé stesso imitare, assimilare, è una funzione legittima, costante, della mente umana, è un soddisfacimento delle esigenze più profonde del nostro essere. Se assimiliamo quanto dobbiamo, se imitiamo chi dobbiamo, ci perfezioniamo e aumentiamo la nostra somiglianza con Dio, riflesso nello specchio delle sue creature. Imitare, servire da esempio, sono obblighi di ogni uomo, operazioni essenziali al perfezionamento dell’anima, inerenti in profondità alla vita sociale delle anime. Sono modalità disposte dalla Provvidenza stessa e dotate da essa di rilevante efficacia per l’esercizio delle potenze dell’anima, per lo sviluppo dello spirito e per la conquista di quella perfezione che è abito nuziale con il quale ci prepariamo al perfetto banchetto spirituale costituito dalla perpetua contemplazione di Dio. 

VIII

Come si svolge questo commercio fra le anime? In altri termini, come vivono la loro vita sociale?

Quando due persone sono in contatto fra loro, per quanto siano disuguali per intelligenza, per istruzione o per forza di persuasione, sono in grado di esercitare reciproca influenza l’una sull’altra. Il corpo umano è uno strumento meraviglioso per l’espressione dell’anima: tutte le nostre idee, anche le più astratte, tutte le nostre emozioni, anche le più sottili, sono suscettibili di un’espressione adeguata attraverso l’azione primordiale della parola in sé stessa, completata e arricchita dall’inflessione della voce, dall’espressione dello sguardo, dai gesti, dall’atteggiamento del corpo, dal portamento e perfino dal modo di camminare. Virgilio [Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.)] ci dice che, attraverso il semplice modo di camminare, Didone si rivelava una dea: «et incessu patuit Dea...»[11]. L’uomo accentua la capacità espressiva del suo corpo con l’abito e con l’ornamento. Questa capacità giunge a essere tanto grande da passare talora, e per altro erroneamente, per irresistibile. Quando questa trasparenza dell’anima in tutto il modo di agire e di essere del corpo diventa limpida e, soprattutto, quando tale trasparenza rivela un’anima ferma, chiara, logica, si riconosce di essere in presenza di quella che si chiama una personalità. Avere personalità, essere una personalità è avere un’anima sufficientemente sviluppata per dirigere, per influenzare, per brillare in tutto il corpo materiale. È realizzare, nel semplice campo naturale, una certa trasfigurazione della materia attraverso l’illuminazione interiore dell’anima, che è una prefigurazione puramente naturale, ma in sé stessa splendida, della trasfigurazione soprannaturale, incomparabilmente più radiosa e più nobile, che i corpi gloriosi avranno in Cielo e di cui Nostro Signore sul Tabor, e anche alcuni santi, ci hanno dato una visione sensibile in questa terra d’esilio[12].

L’anima non si esprime soltanto attraverso il corpo. Le forme, i colori, i suoni, gli odori, i sapori hanno un’analogia non puramente convenzionale con le disposizioni dell’anima umana. E perciò le parole che servono per designare stati dell’anima umana sono correntemente usate per designare per analogia qualità particolari di esseri animali, vegetali o minerali. Si può parlare del canto allegro di un passero, dell’aspetto ridente di un mazzo di fiori o semplicemente di un panorama, e questo nello stesso modo in cui si parla del riso allegro di una giovane o di un bambino. Si può parlare della maestà di un re come dell’aquila o del tuono. Gli esempi di ciò potrebbero essere moltiplicati quasi all’infinito.

Dato questo fatto, l’uomo può applicare la sua azione sugli esseri inferiori, comunicando loro una certa espressione. Così, sicuramente, le specie animali addomesticate dall’uomo ricevono da lui quasi una certa dolcezza di comportamento, una certa compostezza, che li distingue dai loro simili selvatici con differenze molto somiglianti a quelle che distinguono l’uomo civile dal barbaro. Certi animali, per esempio gatti d’Angora o volpini di Pomerania, acquistano una certa distinzione evidentemente affine agli ambienti umani in cui vivono. Un’azione dello stesso genere può anche essere svolta dagli uomini su certe piante, nelle quali si distinguono le specie selvatiche e quelle coltivate, diremmo meglio quelle messe a coltura. L’uomo può comunicare certe espressioni dell’anima perfino a esseri perfettamente inanimati: per esempio, quando fa un quadro con un’espressione assolutamente non preesistente nella tela, nel pennello o nei colori.

E tale è l’anima umana che lo specifico dell’uomo sta nel comunicare una tal quale espressione a tutti gli oggetti di cui si circonda. Poiché siamo fatti di anima e di corpo, vogliamo che gli oggetti che servono al nostro corpo parlino anche all’anima. Un mobile comodo è quello che serve solo al corpo: un mobile elegante è quello che serve anche all’anima. Un tessuto resistente, gradevole al tatto, adatto al clima, soddisfa il corpo. Ma l’anima ha esigenze proprie e chiede che sia bello.

Queste osservazioni ci portano a una nozione essenziale, quella di «ambiente».

Quando, talora, entriamo in una sala, ci sembra di sentire la personalità di chi l’ha arredata. Diciamo che costituisce un ambiente. Che cosa vuol dire a questo proposito «ambiente»? È l’espressione dell’anima che, attraverso il gioco delle forme e dei colori, una persona è riuscita a comunicare a oggetti materiali. In questo, come in tutto, l’uomo imita Dio. Quando contempliamo certi panorami marini, quando di notte guardiamo il cielo, sentiamo un’espressione dell’anima che si distacca da questo mondo: è l’ambiente creato da Dio e attraverso il quale Egli si esprime ai nostri sensi.

Ci sarebbe ancora molto più facile esemplificare con i suoni, con i profumi, con i sapori. San Paolo ha scritto che il vino, bevuto con moderazione, rallegra il cuore del giusto[13]. La Chiesa si serve della musica per educare la nostra pietà. L’aroma austero dell’incenso le sembra adatto a essere respirato da noi nella preghiera. Invece i suoi moralisti ci hanno sempre messo in guardia contro i profumi voluttuosi e capaci di eccitare la mollezza e la lussuria.

Ora esaminiamo l’ambiente in relazione al fine essenziale della contemplazione: portarci a Dio.

Se gli stati dell’anima sono suscettibili di esprimersi così, è implicito che li sono anche le virtù e i vizi. Essi si manifestano frequentemente sul volto umano, nell’inflessione della voce, nel gesto, nell’andatura. Essi sono suscettibili di segnare con una loro nota specifica tutto quanto l’uomo fa o produce.

L’intemperanza o la temperanza di un autore non si nota solo nel fatto di sfruttare il nudo. Il ritmo di una musica può in sé stesso essere lascivo, come la combinazione di certi profumi o la mescolanza di certi sapori. La mancanza di senno non si esprime soltanto attraverso il senso delle parole, ma con la sgarbataggine della gestualità, la stravaganza delle linee o dei colori di un abito, di un mobile, di un edificio.

Su questo punto come in altri l’uomo è soggetto all’errore e può giudicare come sensuali o dissennate cose che gli sembrano tali perché non vi è abituato. Ciononostante una certa sensualità o stravaganza può trovarsi realmente nella cosa prodotta o fabbricata da un uomo sensuale o stravagante. Quando ci si trova di fronte a un «ambiente», proprio perché esprime uno stato dell’anima, esso non può essere moralmente indifferente: o sarà buono e favorirà le anime nella considerazione e nell’assimilazione di Dio, o sarà cattivo e agirà in senso opposto.

Questo è quanto si potrà dire dell’onestà o della disonestà naturale degli ambienti. Sarà lecito fare un passo avanti e parlare di ambienti specificamente cristiani? Ci sembra di sì. L’anima umana, toccata dalla grazia, acquisisce una perfezione soprannaturale che talora si rispecchia nel volto. L’agiografia abbonda di testimonianze di ciò. Che cos’è stata la Trasfigurazione se non questo? Ora, la pittura e la scultura possono esprimere qualcosa di ciò. E certi edifici in cui si trovano queste sculture e vetrate sono con esse in una tale armonia da sembrar esprimere, a loro modo, la stessa irradiazione dell’anima umana misticamente incorporata a Nostro Signore Gesù Cristo. L’eroismo dei crociati fu tipicamente cristiano e, quindi, diverso dall’eroismo puramente naturale di un legionario romano. È possibile osservare l’ambiente formato in un paesaggio da un possente castello medioevale senza avere l’impressione che qualcosa di tipicamente cristiano ci tocchi l’anima?[14]. 

IX

Quando in un determinato gruppo umano, per esempio in una famiglia o in una società, la vita sociale delle anime è regolare e intensa, si costituisce in esso come un’anima collettiva, ossia un insieme di convinzioni, alcune delle quali considerate come particolarmente importanti, di conseguenza una mentalità collettiva, uno stato di spirito comune ed esercitante un’influenza particolarmente forte su tutti i membri; il vocabolario si definisce attraverso un uso più insistente di determinate parole o espressioni, che prendono talora perfino, all’interno del gruppo, una tonalità specifica. Non di rado fanno la loro comparsa perfino neologismi. D’altro lato il modo di vestirsi, di parlare, di comportarsi, tutte le preferenze personali tendono a ricevere il segno dei princìpi comunemente accettati e, soprattutto, di quelli dominanti. Infine, l’ambiente materiale si satura di questa influenza e a poco a poco il quadro fisico — casa di famiglia, sede sociale e così via — viene trasformato in modo da esprimere lo specifico spirito dominante.

Diverse società minori, che formano fra loro come una società di società — per esempio un insieme di famiglie in una città —, possono conservare un certo commercio spirituale comune, che costituisce un ambiente più generico, ma non meno significativo, della vita della città. La fioritura di un insieme di parole, di abiti, di abitudini locali, la produzione di opere d’artigianato segnate dallo stato di spirito locale e perfino da influenze artistiche chiaramente locali, tutto questo è il risultato di una società spirituale armonica, definita e attiva. Evidentemente potremmo risalire così dalla città alla regione, da questa al paese e da questo, a sua volta, alle grandi aree di cultura e di civiltà.

Senza entrare nel dibattito inesauribile sul significato di «civiltà», di «cultura», di «stile» artistico, in questa sede chiamiamo «cultura» sociale lo stato dello spirito collettivo, l’«anima collettiva», almeno in quanto fecondato e ordinato dal lavoro intellettuale e in quanto esistente come nota caratteristica che segna anche il lavoro intellettuale; chiamiamo «civiltà» l’insieme delle istituzioni, delle leggi, dei costumi, infine tutto il modo d’essere collettivo in quanto segnato dalla «cultura», e «stile» le manifestazioni artistiche, in quanto segnate dalla «cultura» e, quindi, necessariamente affini alla «civiltà». Chiamiamo «ambiente» sociale l’impressione d’insieme esercitata sull’osservatore dall’azione armonica della civiltà, della cultura e dello stile, la trasparenza definita, forte, inequivoca, dello stato dell’anima e dei princìpi dottrinali che sono quanto quella società di anime ha di più intrinseco.

In questo senso possiamo e dobbiamo dire che l’ambiente, la cultura, lo stile, la civiltà, cioè i beni intrinsecamente più alti della società umana, sono il prodotto della vita sociale in quanto società di anime. Questi beni sono indispensabili al modo d’essere abituale delle anime e giustificano di per sé stessi, indipendentemente da altri argomenti — per altro tutti legittimi —, l’esistenza della società. Infatti nessuno può concepire una convivenza umana che non tenda, attraverso il suo specifico dinamismo, a produrre questi beni. Né normali condizioni di vita per l’anima fuori da tutto quanto si possa chiamare ambiente, cultura, stile e civiltà.

Nello stesso senso dobbiamo anche dire che la funzione contemplativa dell’uomo su questa terra, apprendistato, prova e preannuncio della sua funzione eterna in Cielo, di norma si esercita con il sostegno dell’ambiente, della cultura, dello stile e della civiltà. Perché l’uomo, con l’aiuto di tutto questo, vede meglio e assimila in modo più adeguato o rifiuta i diversi aspetti dell’ambiente che lo circonda.

Ancora in quest’ordine d’idee dobbiamo aggiungere che la formazione dell’ambiente, della cultura, dello stile, della civiltà costituisce, benché prodotti tipicamente spirituali, oggetto specifico della società temporale. Quindi quest’ultima nozione ci permetterà di proseguire nelle nostre riflessioni, giungendo a una prospettiva molto ampia dei rapporti fra la Chiesa e la società civile. 

X

Ma prima di arrivare a questo punto, consideriamo nelle loro mutue relazioni gli aspetti spirituali e materiali della vita temporale. In che maniera si relazionano fra loro le attività attinenti alla formazione dell’ambiente, della cultura, dello stile, della civiltà con le altre attività, il cui intreccio forma la vita quotidiana degli uomini e delle società?

Consideriamo l’argomento nella sfera limitata di una famiglia. Per quanto costituisca un ambiente, per quanto la sua vita social-spirituale sia intensa, sarebbe erroneo immaginare che ciascuna delle sue attività sia diretta dalla preoccupazione completamente cosciente, definita, intenzionale, di formare uno stato di spirito e di definirlo. Molto di questo è fatto con la naturalezza e con la noncuranza con cui il corpo respira o il sangue circola nelle vene. Nel costruire un mobile, nel fare una tenda o nello scegliere un quadro, le preoccupazioni consapevoli di ordine assolutamente pratico, di carattere completamente circostanziato, possono perfino avere un ruolo preponderante. Nonostante tutto ciò anche le forze più profonde dell’anima collaboreranno e lasceranno il loro segno sull’atto senza che, spesso, lo percepisca la persona stessa che fa il mobile, che sceglie la tenda o il quadro. Affinità naturali, potenti, fra le varie cose acquistate successivamente dalle diverse generazioni di una famiglia e che coesistono in una stessa casa, e però tanto discrete che, talora, solo le persone estranee al casato sono capaci di notare le caratteristiche, peraltro reali e palpitanti, dell’atmosfera domestica.

Questo spiega la formazione degli stili. Nessuno di essi è un prodotto a tavolino, ma è opera di un’intera società. Gli artisti non sono propriamente i creatori dello stile in uso in una società, ma i suoi interpreti, i suoi propulsori nella linea in cui si va sviluppando la stessa mentalità sociale.

Questo spiega anche il fatto che negli stili autenticamente prodotti da una società il pratico e il bello, gli elementi di utilità fisica e le caratteristiche di espressione mentale così si fondono armonicamente.

La vita specificamente mentale s’intesse in modo così intimo, s’imbeve così profondamente, si radica in modo così indissociabile nella vita materiale come l’anima nel corpo. In questa interpenetrazione sta la garanzia della sanità e dell’autenticità dell’una e dell’altra. 

XI

Quale di queste attività è più importante nella vita temporale? In concreto, questo equivarrebbe a chiedere, quando in una famiglia si acquista un oggetto — per esempio un armadio —, che cos’è più importante: che serva per custodire abiti o che, per il suo aspetto, accentui il potere espressivo dell’ambiente materiale del casato? O se, in un paese, facendo il Palazzo di Giustizia, sia più importante la sua utilità pratica per il funzionamento degli organi di giudizio oppure la maestosità e la gravità di cui dev’essere permeato l’ambiente giudiziario e con cui deve esprimere la natura più intima della funzione del giudicare.

Quando un oggetto deve avere, per sua natura, due attributi, entrambi essenziali, se gliene manca uno non vale nulla. Invece di scegliere fra l’armadio materialmente utile e quello «spiritualmente» utile; invece di scegliere fra il Palazzo solo materialmente adeguato e il Palazzo solo spiritualmente adeguato, sarebbe il caso di cominciare rifiutando l’uno e l’altro.

L’uomo ha il diritto e il dovere di essere sufficientemente esigente da non accontentarsi di un oggetto che presti cattivi servizi alla sua anima o al suo corpo.

Ma non vogliamo sfuggire alla domanda che poco prima avevamo formulato. Il fine immediato, peculiare, naturale di un armadio non consiste nell’essere una specie di condensato di dottrina o di mentalità. In questo senso è più importante che custodisca indumenti in modo conveniente. Ma, siccome il servizio prestato all’anima vale di più di quello prestato al corpo, in un certo senso è più importante la funzione educativa di un mobile del suo aspetto pratico.

Lo stesso si deve dire della società temporale considerata come un tutto. La sua condizione non può essere giudicata normale se non quando fornisce condizioni di esistenza e di progresso soddisfacenti tanto per l’anima quanto per il corpo. La reciproca influenza fra le due sfere porterà anche i progressi ottenuti in ciascuna ad avere ripercussioni favorevoli sul dinamismo peculiare dell’altra. Qualitativamente, tuttavia, è certamente vero che i benefici dello spirito sono più importanti di quelli della materia. E perciò, benché pesi a certa mentalità moderna, è più importante per un paese avere una cultura propria, uno stile proprio, costumi, istituzioni, leggi in consonanza con l’ambiente nazionale che una perfetta canalizzazione di acque e di fognature. L’Atene del tempo di Pericle [495 a.C.-429 a.C.] brillerà per sempre nel firmamento della storia. L’Atene di oggi, incomparabilmente superiore all’altra quanto a comodità materiale di vita, che ricordo lascerà di sé nel futuro? 

XII

Ora, si tratta di definire le relazioni fra le funzioni della società temporale, di cui abbiamo completato la descrizione, e la religione.

La Chiesa insegna che la vita terrena dev’essere paragonata a un noviziato.

Il novizio deve acquisire le conoscenze e le virtù che lo rendano atto alla vita religiosa. L’uomo deve acquisire nella vita terrena le conoscenze e le virtù che lo rendano atto al Cielo. Per virtù s’intende l’abito a operare secondo la retta ragione. Il che suppone una conoscenza dei dettami della retta ragione. Le operazioni a cui si riferiscono questi dettami non sono solo quelle esteriori, ma anche quelle interiori. Qualunque atto puramente interiore dell’uomo, dal momento in cui ha il consenso della volontà, è suscettibile di essere virtuoso o no, a seconda che sia in accordo o in disaccordo con la retta ragione. La società temporale-spirituale è dotata di un’azione potente sull’uomo per portarlo a porre atti interiori o esteriori conformi alla ragione. Quindi essa può essere mezzo utile per salvare o per perdere.

Le manifestazioni più elevate della vita temporale s’inseriscono di loro propria natura nel cuore del problema della salvezza e non possono restarne in nessun modo estranee. Ma la società temporale può servire alla salvezza non solo con il concorso delle leggi con cui favorisce la vera Chiesa e reprime l’errore. È attraverso le mille attività spirituali che costituiscono quanto essa ha di meglio, cioè il fatto di essere una società di anime, senza di che non sarebbe neppure una società[15].

Quindi, nel caso della società temporale accade — mutatis mutandis — lo stesso che con la famiglia, società anch’essa naturale, temporale, ma destinata per quanto ha di più intrinseco ad attività coincidenti con quelle della Chiesa.

Posta tale profonda interpenetrazione di campi, voluta dalla Provvidenza, sarebbe assurdo supporre che Dio non volesse una collaborazione fra la società temporale e la Chiesa. E, di più, che in questa collaborazione fra due società intrinsecamente disuguali il temporale, naturale, perituro, non fosse in una posizione ministeriale in relazione allo spirituale, soprannaturale, eterno; il fine prossimo in relazione al fine ultimo.

In queste considerazioni vi è base sufficiente per andare oltre, sostenendo che la società temporale, soprattutto in quanto società di anime, giunge alla sua perfezione solo attraverso il magistero e la grazia, di cui la Chiesa è depositaria. Ma questo ci porterebbe lontano dal nostro tema. 

XIII

Quindi la società temporale deve esercitare, come la famiglia, benché in un suo modo specifico, una funzione di apostolato nella propria sfera temporale, sotto l’ispirazione e il magistero della Chiesa.

Qual è l’importanza reale del suo contributo nell’opera della salvezza? Chiaramente si tratta di un contributo di carattere puramente naturale, perché solo la Chiesa è una società soprannaturale. Ciò posto, si può tuttavia sostenere che tale importanza è enorme. La Provvidenza ha voluto che l’ambiente di una famiglia, di una società culturale, professionale, ricreativa o qualunque altra, l’ambiente di una città, di una provincia, di un paese, esercitassero sull’uomo un’influenza naturale profonda, dalla quale, per certo, egli si può liberare con l’aiuto della grazia, nel caso che tale influenza sia cattiva, ma che in ogni caso opera potentemente nella sua interiorità. La prova di ciò sta nell’evidenza dei fatti. Dove le leggi, le istituzioni, i costumi, la cultura, lo stile, la civiltà costituiscono un ambiente profondamente cattolico l’azione specifica della gerarchia ecclesiastica ottiene abitualmente grandi frutti, e l’azione dei sacramenti, della predicazione, l’irradiazione della santità dei ministri di Dio muove le moltitudini. Dove, per contro, tutto si oppone a essa, le difficoltà per l’azione della Gerarchia diventano enormi. Sono certamente vincibili, perché a Dio niente è impossibile. Ma operano di per sé stesse in modo sfavorevole.

Questo spiega come paesi interi siano caduti improvvisamente nell’eresia, come l’Inghilterra o le nazioni scandinave: tutto l’ambiente aveva una nota solo apparente di cattolicità. Veramente dominanti erano l’indifferenza, la tiepidezza.

In senso contrario, si potrebbe argomentare sulla base dell’espansione della Chiesa sotto le persecuzioni e il suo indebolimento dopo Costantino [Flavio Valerio Costantino, noto anche come Costantino I e Costantino il Grande (274-337)]. L’argomento è intrinsecamente così debole da far sorridere. Chi può ammettere che la Sposa Mistica di Cristo sia feconda solo quando trattata a colpi di frusta, che i suoi veri benefattori siano i Nerone [Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (37-68)], i Diocleziano [Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (243- 313)] e i suoi veri persecutori san Luigi, san Ferdinando o sant’Enrico [973 o 978-1024]? 

XIV

La società temporale, voluta da Dio, da Lui ordinata, realizzando in sé stessa un’opera di santificazione, è una società santa, che ha una funzione sacra. Società completamente naturale come la famiglia, ma come essa lavorata in profondità dalla vita soprannaturale che germoglia nei suoi membri. Società santa e sacra come la famiglia cristiana, alla quale conviene così bene l’indicazione di santa che perfino il suo vincolo costitutivo è un sacramento istituito dallo stesso Gesù Cristo. Santo Impero, Santa Russia, Santa Francia erano anticamente indicazioni correnti e perfettamente legittime. E nessuno si meravigliava che l’olio consacrato servisse come un sacramentale per ungere i re, che la loro investitura nel potere temporale supremo avvenisse durante una Messa, in una funzione essenzialmente religiosa, con la partecipazione del clero; che la croce di Cristo brillasse in alto sul simbolo del potere temporale che era la corona; o che il titolo più onorevole del detentore sommo del potere temporale fosse un titolo religioso: Sacra Majestas, Rex Apostolicus, Rex Christianissimus, Rex Catholicus, Rex Fidelissimus, Defensor Fidei[16]. Che i duchi di Lorena — i quali si ritenevano re di Gerusalemme — cingessero una corona il cui diadema era fatto di spine o che il re di Lombardia[17] avesse nella sua Corona Ferrea un Chiodo della Passione di Cristo. Tutti questi fatti attestavano la sacralità della società temporale e, pertanto, del potere temporale, benché questo fosse distinto dalla gerarchia ecclesiastica.

Giungiamo così alla nozione di società temporale ministra della Chiesa, che apre ampie prospettive per la nozione della società temporale sacrale.

Ci sembra che, se tutti quanti s’interessano al problema dei rapporti fra la società temporale e la Chiesa avessero ben chiaro nello spirito che la parola «temporale» include a titolo principale enormi valori spirituali e quali essi siano, sarebbe loro più facile comprendere la «ministerialità» del temporale.



[1] Plinio Corrêa de Oliveira, Note sul concetto di Cristianità. Carattere spirituale e sacrale della società temporale e sua «ministerialità» è prima stesura — diciannove pagine manoscritte, quindi fotocopia di altrettante pagine abbastanza accuratamente dattilografate non dall’Autore, ma si conserva solo il dattiloscritto — di un saggio, la cui elaborazione inizia nei primi anni 1950, saggio mai portato a termine, quindi mai edito. Nel renderlo pubblico per la prima volta (cfr. Note sul concetto di Cristianità. Carattere spirituale e sacrale della società temporale e sua «ministerialità». a mia cura, Thule, Palermo1998), ne ho sottolineato il carattere di semplice abbozzo, senza revisione, come testimoniano incompletezze o approssimazioni nei riferimenti, e non sviluppato in alcuni passaggi, come documentano le annotazioni a margine dell’Autore stesso. Ciò nonostante va notato come esso integri utilmente quanto pubblicato dal maestro brasiliano, quindi contribuisca a una migliore definizione e conoscenza della sua visione del mondo nonché della sua prospettiva operativa. Il titolo è ricuperato dall’originale: Notas para a conceituação de Cristiandade: caracter espiritual e sacral da sociedade temporal. Anche se cancellato dall’Autore, poiché non è stato altrimenti sostituito ho ritenuto di poterlo riprendere e collegare a quanto esplicitamente affermato all’inizio dello studio e alla nota che compare sul verso dell’ultimo foglio del manoscritto: «La società temporale mira allo stesso fine della Chiesa quanto alle anime. Quindi è ministeriale». La suddivisione in parti indicate con numeri romani è dell’Autore. Cfr. pure l’edizione del testo, con il titolo redazionale Cristiandade, sacralidade na ordem temporal, in Catolicismo, anno XLVIII, n. 574, San Paolo 1998, pp. 16-32 (ndc).

[2] La Pensée Catholique. Cahiers de Synthése, trimestrale, fondato a Parigi nel 1946 da don Luc Lefèvre [Lucien Joseph Lefèvre (1895-1987)], dal canonico Henri Lusseau (1896-1973), da don Victor Berto (1900-1968) e da don Alphonse Roul (1901-1969), tutti formati da Henri Le Floch C.S.S.P. (1862-1950), sostenitore di posizioni antimoderniste, antiliberali e antidemocratiche. Cessa le pubblicazioni nel 1988 (ndc).

[3] [Cfr. card. Alfredo Ottaviani, Devoirs de l’État catholique envers la religion, in La Pensée Catholique. Cahiers de synthèse, n. 26, Parigi 1953, pp. 4-18; si tratta della trad. francese, riveduta dal porporato, della conferenza Doveri dello Stato cattolico verso la religione, da lui tenuta il 2 marzo 1953 nell’aula magna del Pontificio Ateneo Lateranense, edita nello stesso anno dalla Libreria del Pont. Ateneo Lateranense e trascritta in Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno VII, n. 52-53, Piacenza agosto-settembre 1979, pp. 6-11.]

[4] [Cfr. don Luc J. Lefèvre, État et Église, in La Pensée Catholique. Cahiers de synthèse, cit., pp. 19-34.]

[5] Cfr. san Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, [libro I], capitoli 14-15 [testo e trad. it., in Idem, Il Governo dei Principi. Al re di Cipro. De Regno (De Regimine Principum) ad Regem Cypri, in Idem, Opuscoli politici, con Introduzione e trad. a cura di Lorenzo Alberto Perotto O.P., ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997, pp. 9-395 (pp. 87-96)].

[6] [Cfr. Alexis Carrel, L’homme, cet inconnu, Plon, Parigi 1935, trad it., L’uomo, questo sconosciuto, con Prefazione di Roberto Tresoldi, Luni, Milano 2006.]

[7] [Dante Alighieri (1265-1321), La Divina Commedia. Paradiso, canto XXXIII, verso 145.]

[8] [Cfr. Hb. 13, 14: «Non enim habemus hic manentem civitatem sed futuram inquirimus», «perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura».]

[9] A questo punto, o altrove, varrà la pena di aggiungere una nota sulla contemplazione soprannaturale?

[10] [Cfr. Gen. 2, 18: «Non è bene che l’uomo sia solo».

[11] [Publio Virgilio Marone, Eneide, libro I, v. 405, testo e trad. it., con Prefazione di Beniamino Placido, Introduzione di Enrico Oddone, Feltrinelli, Milano 2008, p. 63: «et vera incessu patuit dea», «e vera dea si mostrò nel passo».]

[12] Forse a questo punto cade nel testo l’argomento dell’analogia. 

[13] Per quanto san Paolo parli del vino non solo per denunciarne l’abuso (cfr. Rom. 14, 21; Ef. 5, 18; 1 Tim. 3, 8; e Tito 2, 3) ma anche per consigliarne l’uso medicinale (cfr. 1 Tim. 5, 23), l’effetto indicato dall’Autore, cioè l’allegria prodotta nel cuore del giusto dal vino bevuto con moderazione, suggerisce che il testo scritturale presumibilmente a lui presente fosse Eccli. 31, 36-37: «Exultatio animae et cordis vinum moderate potatum. / Sanitas est animae et corpori sobrius potus» (trad. it., Eccli. 31, 36-37: «Esultanza dell’anima e del cuore è il vino bevuto moderatamente. Salute dell’anima e del corpo è il bere sobrio» (ndc).

[14] Non vogliamo dilatare troppo questo articolo. Perciò ci limitiamo a segnalare che, per gli stessi motivi per cui si potrebbe parlare di un ambiente specificamente soprannaturale e cristiano, si potrebbe parlare di un ambiente specificamente preternaturale e diabolico.

[15] San Tommaso [cfr. Il Governo dei Principi. Al re di Cipro. De Regno (De Regimine Principum) ad Regem Cypri, cit., libro I, capitolo 1, pp. 31-34] insegna che la società umana è realmente una società perché costituita da uomini, cioè da esseri dotati di anima. Un formicaio o un alveare non sono società.

[16] Sacra Majestas è titolo dell’imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, Rex Apostolicus del re d’Ungheria, Rex Christianissimus del re di Francia, Rex Catholicus del re di Spagna, Rex Fidelissimus del re di Portogallo, Defensor Fidei del re d’Inghilterra (ndc).

[17] Il riferimento è alla Corona Ferrea, conservata nel tesoro del duomo di Monza, cui sarebbe stata donata dalla regina dei longobardi Teodolinda (m. 627 circa) e utilizzata per l’incoronazione dei re d’Italia, da Berengario I (850 ca.-924), duca e marchese del Friuli, nell’888, all’imperatore Ferdinando I (1793-1875) d’Asburgo, nel 1838, a re del Lombardo-Veneto. Quanto alla formula «re di Lombardia» va ricordato che, «fino alla fine del secolo XVIII, il linguaggio giuridico indicherà indifferentemente i territori subalpini dipendenti dal Santo Impero come italiani o lombardi (largo sensu), o “welches” (radice gall- = romando)» (Jean-François Noël, Le Saint-Empire, Presses Universitaires de France, Parigi 1976, p. 29, nota): quindi sta per «Re d’Italia o dei Longobardi» (James Bryce [1838-1922], Il Sacro Romano Impero, trad. it., 2a ed. it. riveduta, Hoepli, Milano 1907, p. 230) (ndc).

 


 

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