Plinio Corrêa de Oliveira
Perché il nostro mondo povero e ugualitario si è entusiasmato per il fasto e la maestosità della incoronazione?
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Catolicismo,
n. 31, giugno 1953 Cristianità, maggio-giugno 1981, N. 73-74 – Anno IX, pag. 12-15
Sul
cerimoniale del potere In occasione dell'insediamento del generale Eisenhower alla carica di presidente della repubblica degli Stati Uniti, abbiamo scritto alcune considerazioni, che hanno suscitato interesse tra i lettori di Catolicismo. In quella occasione abbiamo promesso di analizzare anche le cerimonie della incoronazione della regina d'Inghilterra, Elisabetta II. E di questo impegno ci veniamo a sdebitare.
Monografia sociale di
palpitante interesse
La splendida cerimonia ha
offerto una visione di insieme — soltanto su un piano simbolico, ma
che, precisamente per il fatto di essere simbolico, traduce meglio di
qualsiasi altro alcuni aspetti della realtà — dell'Inghilterra con
tutto quanto essa è, possiede e può al giorno d'oggi. Le istituzioni
inglesi, il loro significato profondo, il loro passato, le loro presenti
condizioni di esistenza, le tendenze con cui avanzano verso il futuro,
la situazione attuale della Gran Bretagna nel Commonwealth e nel mondo,
le prospettive favorevoli e anche le spesse nebbie che si delineano per
essa sugli orizzonti diplomatici, tutto, insomma, si è riflesso in
qualche modo nella incoronazione, e nelle cerimonie che l'hanno
preceduta e che a essa hanno fatto seguito. Inoltre, in tutte queste
cerimonie vi è una tale ricchezza di aspetti, che rende ciascuna di
esse capace di suscitare tante considerazioni, che non sarebbe troppo se
una équipe di specialisti, in questa epoca di indagini sociologiche,
dedicasse alle cerimonie, alle manifestazioni e alle solennità di cui
la incoronazione è stata il punto centrale, una ricerca accurata, che
andrebbe a formare certamente alcuni grossi volumi.
Le nostre aspirazioni,
evidentemente, devono essere più limitate. Non vogliamo trattare di
tutti gli aspetti delle feste della incoronazione, e non tentiamo
neppure di elencarli. Vogliamo prendere in considerazione solamente un
lato di questo vasto argomento.
La uguaglianza, idolo del
nostro secolo
In tutti i campi della vita
odierna si manifesta la influenza schiacciante dello spirito di
uguaglianza. In altri tempi, la virtù, la culla, il sesso, la
educazione, la cultura, l'età, il genere di professione, i poteri,
altre circostanze ancora, modellavano e sfumavano la società umana con
la varietà e la ricchezza di mille distinzioni e colori, influivano in
tutti i modi nei rapporti tra gli uomini, segnavano a fondo le leggi, le
istituzioni, le attività intellettuali, i costumi, la economia, e
comunicavano a tutta l'atmosfera della vita pubblica e privata una nota
di gerarchia, di rispetto, di gravità. In questo consisteva uno dei
tratti spirituali più profondi e tipici della società cristiana. Si
esagererebbe se si affermasse che oggi tutte queste distinzioni e
sfumature sono state abolite. Sarebbe tuttavia impossibile non
riconoscere che molte sono scomparse completamente, e che le poche che
restano vanno riducendosi e scolorendo giorno dopo giorno.
Indubbiamente, la vita è una
costante trasformazione di tutto quanto non è perenne. Sarebbe normale
che molte delle sfumature di altri tempi scomparissero, e che se ne
formassero altre. Ma attualmente non si dà, per così dire, una sola
trasformazione che non abbia come effetto un livellamento, che non
favorisca direttamente o indirettamente la marcia della società umana
verso uno stato di cose assolutamente ugualitario. E quando quelli di
sotto rallentano la poussée ugualitaria, sono quelli di sopra
che si incaricano di portarla avanti. Questo fenomeno non è
circoscritto a una nazione, e neppure a un continente, e sembra spinto
da un vento che soffia sul mondo intero. Il tifone livellatore rettifica
qui e là — in Asia, per esempio, e in certe zone ipercapitalistiche
dell'Occidente — abusi intollerabili, imponendo in altri luoghi
mutamenti ammissibili, distruggendo in altri, infine, diritti
incontestabili, e colpendo a fondo lo stesso ordine naturale delle cose.
In tutti questi casi, però, importa notare che questo tifone
ugualitario, di ampiezza cosmica, non cessa di soffiare. Fatta una
riforma giusta, tende a continuare la sua opera livellatrice e a passare
a quanto è dubbiosamente giusto, e una volta raggiunto questo punto,
entra con impeto crescente nel terreno di quanto è chiaramente ingiusto.
Questa sete di uguaglianza si sazia solamente con il livellamento
completo, totale, assoluto. La uguaglianza è la meta verso la quale
tendono le aspirazioni delle masse, la mistica che governa l'azione di
quasi tutti gli uomini, l'idolo sotto la cui egida l'umanità spera di
trovare l'età dell'oro.
Un fatto sconcertante: la
popolarità della incoronazione
Ora, mentre questo tifone
soffia con una forza senza precedenti, nel pieno svolgimento di questo
enorme processo mondiale, una regina è incoronata secondo riti ispirati
da una mentalità assolutamente anti-ugualitaria. Questo fatto non
irrita, non provoca proteste, e, al contrario, è accolto da una enorme
ondata di simpatia popolare. Il mondo intero ha festeggiato la
incoronazione della giovane sovrana inglese, quasi come se le tradizioni
che ella rappresenta fossero un valore comune a tutti i popoli. Da ogni
parte sono affluite a Londra persone desiderose di estasiarsi di fronte
a uno spettacolo tanto anti-moderno. Davanti a tutti gli apparecchi
televisivi si sono raccolti avidi, assetati di vedere la cerimonia,
uomini, donne, bambini di tutte le nazioni, di tutte le lingue, delle più
diverse professioni, e, il che è assolutamente straordinario, delle più
diverse opinioni. In questo immenso movimento spirituale della umanità
contemporanea vi è qualcosa di sorprendente, di contraddittorio, di
sconcertante forse, che esige una analisi accurata. Ed è questo
l'oggetto del nostro studio.
Alcune spiegazioni
Questo fatto ha attirato
l'attenzione di diversi commentatori, che hanno proposto alcune
spiegazioni. Gli uni hanno ricordato che, nella misura in cui la
ugualitarizzazione si diffonde e i re si vanno facendo rari, anche una
incoronazione diventa più eccezionale, più straordinaria, più
interessante. Altri, insoddisfatti da queste ragioni, hanno cercato un
motivo diverso. La bellezza delle cerimonie, considerate nel loro
aspetto puramente estetico, avrebbe attirata l'attenzione degli amanti
del genere. La debolezza di queste spiegazioni è ovvia. Tutto, nelle
informazioni relative alla incoronazione, ha dimostrato che le masse si
sono commosse per essa, non per un semplice impulso di curiosità, per
vedere la ricostruzione di una cerimonia storica o lo svolgimento di uno
spettacolo artistico, ma per un immenso movimento di ammirazione quasi
religiosa, di simpatia, anche di tenerezza, che ha circondato non solo
la giovane regina, ma tutto ciò che ella e la istituzione monarchica
dell'Inghilterra simboleggiano. Se la incoronazione fosse stata, per
quanti l'hanno vista, un semplice spettacolo storico, una pura curiosità
artistica, che avrebbe potuto essere rappresentata ugualmente bene o
meglio da attori professionisti, come spiegare il fremito di gioia, il
rinnovarsi di speranze in un futuro migliore, le manifestazioni di
apoteosi, le acclamazioni senza fine, dei giorni della incoronazione?
Qualcuno ha azzardato un'altra
spiegazione. L'uomo ha mostrato in tutti i tempi, in tutti i luoghi, una
debolezza : il gusto per i titoli onorifici, per le distinzioni, per la
pompa. Ora, l'ugualitarismo razionale e austero dei nostri giorni non
alimenta assolutamente questa debolezza. E, così, quando una occasione
come la incoronazione dà a ciò pretesto, l'uomo sente tutto il diletto
che suole dargli il soddisfacimento delle sue debolezze.
A nostro modo di vedere, vi è
molta ganga in questa opinione, ma vi è anche un filone d'oro. Il
filone consiste nel riconoscere che nella natura umana vi è una
tendenza profonda, permanente, forte, verso ciò che è pompa, titolo
onorifico, distinzione, e che l'ugualitarismo odierno comprime questa
tendenza, generando una nostalgia profonda, che esplode tutte le volte
che ne trova una occasione. La ganga consiste nel considerare questa
tendenza una debolezza. Che il gusto per le onorificenze, e per le
distinzioni dia origine a molte manifestazioni della piccineria umana,
non vi è chi lo neghi. L'errore sta nel dedurne che questo gusto sia in
sé stesso una debolezza! Come se la fame, la sete, il desiderio di
riposo, e tante altre tendenze naturali nell'uomo, e in sé
assolutamente legittime, dovessero essere considerate cattive, erronee,
ridicole, per il semplice fatto che sono occasioni di eccessi e anche di
crimini senza numero! Perfino i sentimenti più nobili dell'uomo possono
portarlo a debolezze. Non vi è sentimento più rispettabile dell'amore
materno. Tuttavia, a quanti errori può portare, a quanti ha già
portato, a quanti ancora porterà in futuro...
Una virtù essenziale: l'amor
proprio
Il gusto dell’uomo per le
onorificenze, per le distinzioni, per la solennità, non è altro che la
manifestazione del saggio istinto di sociabilità, tanto inerente alla
nostra natura, tanto giusto in sé stesso, tanto saggio quanto qualsiasi
altro istinto di cui Dio ci ha dotati.
La nostra natura ci porta a
vivere in società con altri uomini. Ma non si accontenta di una
qualsiasi convivenza. Per le persone con una struttura spirituale retta,
e perciò fatta eccezione degli eccentrici, degli atrabiliari, dei
nevropatici, la convivenza umana realizza perfettamente i loro obiettivi
naturali soltanto quando è fondata sulla conoscenza e sulla
comprensione reciproche, e quando da questa conoscenza e da questa
comprensione nasce la stima, l'amicizia. In altri termini, l'istinto di
sociabilità richiede non una convivenza umana fondata su equivoci, irta
di incomprensioni e di attriti, ma un contesto di rapporti pacifici,
armoniosi e piacevoli.
Anzitutto, vogliamo essere
conosciuti per ciò che effettivamente siamo. Un uomo che abbia qualità
tende naturalmente a manifestarle, e desidera che queste qualità gli
acquistino la stima e la considerazione dell'ambiente in cui vive. Un
cantante, per esempio, tende a farsi ascoltare, e a suscitare
nell'uditorio il gusto che le qualità della sua voce meritano. Per la
stessa ragione, un pittore tende a esporre le sue tele, uno scrittore a
pubblicare i suoi lavori, un uomo colto a comunicare quanto sa, ecc. E
per una ragione analoga, infine, l'uomo virtuoso si onora di essere
tenuto come tale. La indifferenza totale rispetto al concetto che ha di
noi il prossimo, non è virtù ma mancanza di amor proprio.
È chiaro che il retto e
discreto desiderio di una buona reputazione può facilmente corrompersi
come tutto quanto è inerente all'uomo. È una conseguenza del peccato
originale. Così, anche l'istinto di conservazione può facilmente
degenerare in paura, il ragionevole desiderio di alimentarsi in gola,
ecc. Nel caso concreto della sociabilità, è molto facile che giungiamo
all'eccesso di considerare il plauso dei nostri simili un autentico
idolo, l'obiettivo di tutti i nostri atti, la ragione del nostro
comportamento virtuoso; che per ottenere questo plauso fingiamo qualità
che non abbiamo, oppure rinneghiamo i nostri princìpi più sacri (chi
saprà mai quante anime il rispetto umano trascina all'inferno!); che
portati da questa sete commettiamo crimini per salire a posti e a
condizioni elevate; che affascinati da questo obiettivo diamo una
importanza risibile ai più piccoli fattori capaci di metterci in
mostra; che proviamo odi violenti, esercitiamo vendette atroci contro
chi non ha riconosciuti in tutta la loro pretesa ampiezza i meriti che
immaginiamo di avere. La storia pullula letteralmente di tristi esempi
di tutto questo. Ma, insistiamo, se con questo argomento dovessimo
concludere che è intrinsecamente cattivo il desiderio dell'uomo di
essere conosciuto e stimato dai suoi simili per quello che veramente è,
dovremmo condannare tutti gli istinti, la nostra stessa natura.
È certo, anche, che Dio esige
che rispetto al nostro buon concetto presso il prossimo, siamo
distaccati interiormente, come rispetto a tutti gli altri beni della
terra, l'intelligenza, la cultura, la carriera, la bellezza, la
ricchezza, la salute, la vita stessa. Ad alcuni Dio chiede un distacco
non soltanto interiore, ma esteriore, dalla considerazione sociale, come
ad altri chiede non soltanto la povertà in spirito ma la povertà
materiale effettiva. È allora necessario ubbidire. E da ciò il fatto
che le agiografie rigurgitano di esempi di santi che fuggono dalle più
lecite manifestazioni di apprezzamento da parte dei loro simili.
Nonostante tutto questo, è
lecito in sé stesso che l'uomo desideri essere stimato da quelli con
cui convive.
Una condizione di esistenza
della società: la giustizia
Questa tendenza naturale è
per altro consonante con uno dei princìpi più essenziali della vita
sociale, che è la giustizia, secondo la quale si deve dare a ciascuno
quello a cui ha diritto non soltanto in beni materiali, ma anche in
onore, distinzione, stima, affetto. Una società basata sul
disconoscimento totale di questo principio sarebbe assolutamente
ingiusta. « Date a tutti ciò che è dovuto, a chi il tributo il
tributo, a chi il dazio il dazio, a chi il timore il timore, a chi
l'onore l'onore », ci dice san Paolo
(1).
Aggiungiamo che queste
manifestazioni sono dovute di rigore non solamente ai meriti personali,
ma anche alla funzione, alla carica o alla posizione che una persona
detiene. Così, il figlio deve rispettare suo padre anche se cattivo, il
fedele deve riverire il sacerdote anche se indegno, il suddito deve
rispettare il suo sovrano anche se corrotto. San Pietro comanda agli
schiavi che onorino i loro signori anche se di carattere intrattabile
(2).
E d'altro canto è necessario
anche saper onorare in un uomo la stirpe illustre dalla quale discende.
Questo punto è
particolarmente doloroso per l'uomo ugualitario di oggi. Tuttavia è così
che pensa la Chiesa. Leggiamo l'insegnamento profondo e splendido di Pio
XII: « Le ineguaglianze sociali, anche quelle legate alla nascita, sono
inevitabili: la natura benigna e la benedizione di Dio all'umanità
illuminano e proteggono le culle, le baciano, ma non le pareggiano.
Guardate pure le società più inesorabilmente livellate. Nessun'arte ha
mai potuto operare tanto che il figlio di un gran Capo, di un gran
conduttore di folle, restasse in tutto nel medesimo stato di un oscuro
cittadino perduto fra il popolo. Ma se tali ineluttabili disparità
possono paganamente apparire un'inflessibile conseguenza del conflitto
delle forze sociali e della potenza acquisita dagli uni sugli altri, per
le leggi cieche che si stimano reggere l'attività umana e metter capo
al trionfo degli uni, come al sacrificio degli altri; da una mente
invece cristianamente istruita ed educata esse non possono considerarsi
se non quale disposizione voluta da Dio con il medesimo consiglio delle
ineguaglianze nell'interno della famiglia, e quindi destinate a unire
maggiormente gli uomini tra loro nel viaggio della vita presente verso
la patria del cielo, gli uni aiutando gli altri, a quel modo che il
padre aiuta la madre e i figli »
(3).
L'amor proprio e la giustizia
impongono la formazione del protocollo
Abbiamo visto, fino a questo
punto, che la stessa natura esige che nella convivenza sociale siano
tenuti nella dovuta considerazione tutti i valori umani, che
differiscono gli uni dagli altri quasi all'infinito.
Come applicare, in pratica,
questo principio? Come ottenere che un valore sia visto e riconosciuto
da tutti gli uomini, e che ciascuno senta esattamente in che misura
questo valore deve essere riverito? Più concretamente, come insegnare a
tutti che la virtù, l'età, il talento, la stirpe illustre, la carica,
la funzione, devono essere onorate? Come indicare la misura esatta di
rispetto e di amore che si deve a ciascuno? In tutti i tempi, in tutti i
luoghi, lo stesso ordine naturale delle cose è venuto risolvendo il
problema con l'aiuto dell'unico mezzo pienamente efficace: il costume.
Saggezza profonda del
protocollo della incoronazione
Così, usando gli stessi modi
di trattare con le persone di identica condizione, il buon senso,
l'equilibrio, il tatto delle società umane è venuto creando punto per
punto, in ogni paese o in ogni area culturale, le regole di cortesia, le
formule, i gesti, diremmo quasi i riti adeguati a definire, insegnare,
simboleggiare ed esprimere quanto si deve a ogni persona, secondo la sua
condizione, in materia di venerazione e di stima.
Sotto l'influsso della Chiesa,
la civiltà cristiana ha portato all'apogeo questa bella arte dei
costumi e dei simboli sociali. Ne è derivata la meravigliosa cortesia e
affabilità di modi dell'europeo, e, per estensione, dei popoli
americani nati dall'Europa; i princìpi della Rivoluzione francese del
1789 si sono incaricati di colpirla profondamente.
I titoli di nobiltà, i
simboli dell'araldica, le decorazioni, le regole del protocollo, non
sono stati altro che mezzi mirabili, pieni di tatto, di precisione e di
significato, per definire, graduare e modellare i rapporti umani
all'interno dei quadri politici e sociali allora esistenti. A nessuno
potrebbe accadere di vedervi una pura vanità. La stessa Chiesa, che è
maestra di tutte le virtù e combatte tutti i vizi, ha istituito titoli
di nobiltà, ha distribuito e distribuisce decorazioni, ha elaborato per
sé tutto un cerimoniale di una mirabile precisione nel definire tutte
le differenze gerarchiche che la legge divina e la saggezza dei Papi
sono venute creando nel suo seno nel corso dei secoli. Sulle decorazioni
il beato Pio X ha detto: « Le ricompense concesse al valore
contribuiscono potentemente a suscitare nei cuori il desiderio di azioni
rilevanti, perché se glorificano uomini distinti che hanno ben meritato
dalla Chiesa oppure dalla società, trascinano gli altri con l'esempio a
percorrere la stessa carriera di gloria e di onore. Con questa saggia
intenzione, i Pontefici Romani, Nostri Predecessori, hanno circondato di
un amore speciale gli Ordini Cavallereschi, quasi come stimoli di gloria
[…]» (4).
Che vi sia poi una insegna per
la carica suprema dello Stato, insegne proprie per le persone di stirpi
più illustri, vesti di gala per i dignitari incaricati delle funzioni
di maggiore importanza politica, che tutto l'apparato di questi simboli
sia utilizzato nella cerimonia di insediamento del capo dello Stato, in
tutto questo non vi è una mascherata, né concessioni a debolezze. Vi
è soltanto la osservanza di regole di comportamento assolutamente
conformi con l'ordine naturale delle cose.
Modernizzazione sconsiderata
Ma, dirà qualcuno, non
sarebbe conveniente modernizzare tutti questi simboli, aggiornare tutte
queste cerimonie? Perché conservare riti, formule, abiti del più
remoto passato?
La domanda è di un
semplicismo rozzo. I riti, le formule, gli abiti, per il fatto di
esprimere situazioni, stati d'animo, circostanze realmente esistenti,
non possono essere creati oppure riformati bruscamente e per decreto,
bensì gradualmente, lentamente, in generale impercettibilmente,
attraverso l'azione del costume. Ora, questo processo di trasformazione
è stato reso impossibile dalla Rivoluzione francese con tutta la sua
sequela di avvenimenti. Infatti, l'umanità si è lasciata trascinare
dal miraggio di un egualitarismo assoluto, ha votato al disprezzo e
all'odio tutto quanto, nel campo dei costumi, esprime disuguaglianze, e
ha istituito un ordine di cose nuovo, basato sulla tendenza al
livellamento completo, all'abolizione di tutte le etichette e di tutte
le regole di comportamento. Imbevuta di questo spirito, ha perso la
capacità di mettere mano nelle cose del passato per un fine diverso da
quello di distruggerle. Se l'uomo contemporaneo dovesse riformare riti e
istituire simboli, siccome la Rivoluzione francese ha creato in lui
l'adorazione della legge e il disprezzo del costume, cercherebbe, per di
più, di farlo per decreto. E, ancora una volta, niente è più irreale,
più artificiale, in molti casi più pericoloso, delle realtà sociali
che si immagina di poter creare per legge. La corte da operetta,
rutilante, sfarfalleggiante, e profondamente volgare, di Napoleone lo ha
mostrato bene.
Distruggere per distruggere
Per altro, è necessario
aggiungere che il semplice fatto che un rito, oppure un simbolo, sia
molto antico, non è ragione sufficiente per abolirlo, ma piuttosto per
conservarlo. L'autentico spirito tradizionale non distrugge per
distruggere. Al contrario, conserva tutto, e distrugge solamente quanto
ha motivi reali e seri per essere distrutto. Infatti, l'autentica
tradizione, se non è una sclerotizzazione, una rigida fissazione nel
passato, è ancora meno una negazione costante di esso.
A questo proposito, ci si
permetta di citare un'altra pagina magistrale di Pio XII. Rivolgendosi
alla nobiltà e al patriziato romano, e facendo riferimento alla
tradizione che l'aristocrazia della Città Eterna vi rappresentava, il
Pontefice ha detto : « Molti animi, anche sinceri, s'immaginano e
credono che la tradizione non sia altro che il ricordo, il pallido
vestigio di un passato che non è più, che non può più tornare, che
tutt'al più viene con venerazione, con riconoscenza se vi piace,
relegato e conservato in un museo che pochi amatori o amici visitano. Se
in ciò consistesse e a ciò si riducesse la tradizione, e se importasse
il rifiuto o il disprezzo del cammino verso l'avvenire, si avrebbe
ragione di negarle rispetto e onore, e sarebbero da riguardare con
compassione i sognatori del passato, ritardatari in faccia al presente e
al futuro, e con maggior severità coloro, che, mossi da intenzione meno
rispettabile e pura, altro non sono che i disertori dei doveri dell'ora
che volge così luttuosa.
« Ma la tradizione è cosa
molto diversa dal semplice attaccamento ad un passato scomparso; è
tutto l'opposto di una reazione che diffida di ogni sano progresso. Il
suo stesso vocabolo etimologicamente è sinonimo di cammino e di
avanzamento. Sinonimia, non identità. Mentre infatti il progresso
indica soltanto il fatto del cammino in avanti, passo innanzi passo,
cercando con lo sguardo un incerto avvenire; la tradizione dice pure un
cammino in avanti, ma un cammino continuo, che si svolge in pari tempo
tranquillo e vivace, secondo le leggi della vita, sfuggendo alla
angosciosa alternativa: "Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait!";
simile a quel Signore di Turenne, di cui fu detto: "Il a eu dans sa
jeunesse toute la prudence d'un âge avancé, et dans un âge avancé
toute la vigueur de la jeunesse" (Fléchier, Oraison funèbre,
1676). In forza della tradizione, la gioventù, illuminata e guidata
dall'esperienza degli anziani, si avanza di un passo più sicuro, e la
vecchiaia trasmette e consegna fiduciosa l'aratro a mani più vigorose
che proseguono il solco cominciato. Come indica col suo nome la
tradizione è il dono che passa di generazione in generazione, la
fiaccola che il corridore ad ogni cambio pone in mano e affida all'altro
corridore, senza che la corsa si arresti o si rallenti. Tradizione e
progresso s'integrano a vicenda con tanta armonia, che, come la
tradizione senza il progresso contraddirebbe a sé stessa, così il
progresso senza la tradizione sarebbe una impresa temeraria, un salto
nel buio.
« No, non si tratta di
risalire la corrente, di indietreggiare verso forme di vita e di azioni
di età tramontate, bensì, prendendo e seguendo il meglio del passato,
di avanzare incontro all'avvenire con vigore di immutata giovinezza »
(5).
Nostalgia di un sano ordine
naturale
Ora, proprio con questa
tradizione il mondo contemporaneo ha rotto, per adottare un progresso
nato non dallo sviluppo armonioso del passato, ma dai tumulti e dagli
abissi della Rivoluzione francese. In un mondo livellato, poverissimo di
simboli, regole, modi, compostezza, di tutto quanto significa ordine e
distinzione nella convivenza umana, e che in ogni momento continua a
distruggere il pochissimo di ciò che a esso resta, mentre la sete di
uguaglianza si va saziando, la natura umana, nelle sue fibre profonde,
va sentendo sempre di più la mancanza di ciò con cui così follemente
ha rotto. Qualcosa di molto intimo e forte in essa le fa sentire uno
squilibrio, una incertezza, una insipidità, una paurosa volgarità di
vita, che tanto più si accentua quanto più l'uomo si riempie dei
tossici della uguaglianza.
La natura ha reazioni
improvvise. L'uomo contemporaneo, ferito e trattato male nella sua
natura da tutto un tenore di vita costruito su astrazioni, chimere,
teorie vane, nei giorni della incoronazione si è rivolto, affascinato
immediatamente ringiovanito e riposato, verso il miraggio di questo
passato così diverso dal terribile giorno d'oggi. Non tanto per
nostalgia del passato, quanto di certi princìpi dell'ordine naturale
che il passato rispettava, e che il presente viola in ogni momento.
Ecco, a nostro modo di vedere,
la spiegazione più profonda e più reale dell'entusiasmo che ha preso
il mondo durante le feste della incoronazione.
Note:
(1) Rom. 13, 7.
(2) Cfr. 1Pt. 2, 18.
(3) Pio XII, Discorso al
Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 5-1-1942, in Discorsi e
Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. III, p. 347.
(4) BEATO Pio X, Breve sugli
Ordini Equestri Pontifici, del 7-2-1905, in Actes de Pie X, Editions des
Questions Actuelles, Parigi s.d., vol. II, p. 6.
(5) Pio XII, Discorso al
Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 19-1-1944, in Discorsi e
Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. V, pp. 179-180. |